lunedì 2 aprile 2007

La signora Svea

La signora Svea. Oh la signora Svea. Com’era bella la signora Svea.
Quando giunsi alla fattoria dove la sua famiglia era sfollata, per sfuggire ai bombardamenti della città, fu lei ad aprire la porta, ed io rimasi colpito dai suoi capelli biondi, dal suo sorriso, dalla sua figura snella ed armoniosa.
Era quasi la fine del mese di giugno del 1944, la grande casa colonica ove la signora Svea Rxxxxxxxx aveva trovato rifugio con il marito ed i figli, a me sembrò immensa.

Si ergeva, quasi isolata, in aperta campagna all’estrema periferia di un minuscolo paese veneto che non ebbi mai modo di vedere perché troppo distante: Maserà.
La tragedia italiana si avviava verso il suo tragico epilogo: il 14 settembre dell’anno precedente, la radio di Roma aveva annunziato che Benito Mussolini aveva ripreso la suprema direzione del fascismo in Italia.
Il 23 settembre si costituiva, in Roma, il “governo fascista repubblicano” ossia la cosiddetta “repubblica di Salò. L’11 gennaio del 1944, il genero del duce, Galeazzo Ciano (figlio dell’ammiraglio Costanzo), insieme con altri grandi nomi del fascismo monarchico: Gottardi, De Bono, Pareschi e Marinelli era stato fucilato per tradimento.
Il giorno quattro di quello stesso mese di giugno 1944, Roma era stata liberata e nell’Italia del nord divampava la guerra civile tra le brigate nere, composte in gran parte da ragazzi tra i 15 e i 18 anni, e le formazioni dei partigiani che, in quell’epoca, erano definite “ribelli”.
Io avevo solo nove anni ed ignoravo questi tragici avvenimenti di cui, in mia presenza, non si parlava mai. Del resto non si parlava molto neanche d’altre cose.
Anche in quella circostanza, babbo e mamma mi avevano soltanto detto che per un certo periodo sarei dovuto andare a vivere in un altro paese, a casa di un collega di papà: il signor Rxxxxxx.
Non sapevo perché dovessi andar via da casa. Credevo fosse una specie di punizione, perchè spesso la minaccia preferita dai miei era quella di mandarmi in collegio.
Solo in seguito seppi che mia madre era incinta di quasi otto mesi e che stava per essere ricoverata in una clinica, nella cittadina di Este, dove di lì a poco sarebbe nato il mio primo fratello.
Mio padre stava fuori tutto il giorno per il suo lavoro in banca e mia madre, ovviamente, non poteva abbandonarmi in casa da solo. In quel periodo, già da un paio d’anni eravamo sfollati, in seguito ai bombardamenti, dalla nostra casa di Padova e c’eravamo rifugiati nel paesino di Galzignano, nei colli Euganei, presso la famiglia di un contadino.
Il primo giorno del mio arrivo a Maserà fu ricco di novità: gradevolissimo l’incontro con la mia sorridente ed affascinante ospite, esitante e diffidente quello con i suoi figli Anita e Maurizio, due ragazzi di circa la mia età che, in effetti, vedevano in me uno sconosciuto intruso e che anche in seguito avrebbero avuto nei miei confronti una malcelata ostilità.
Il pranzo e la cena furono squisiti: riso cotto nel latte. In quel momento mi piacque moltissimo. Mi piacque sempre meno nei trenta o quaranta giorni successivi, durante i quali fu la dieta prevalente e quasi costante.
Ero troppo piccolo per rendermi pienamente conto delle enormi difficoltà che vi erano, anche in campagna, per procurarsi dei generi commestibili, che erano severamente razionati dalle “tessere alimentari” e spesso introvabili, come l’olio, lo zucchero e persino il sale.
Il ricordo di quel periodo è dominato dal sole, dal caldo e dallo spazio.
La grande fattoria nella quale abitavamo, insieme con i contadini che n’erano i proprietari, era circondata solo da alberi, prati e campi che si estendevano fino all’orizzonte. Vicino alla nostra vi era solo un’altra casa colonica, forse ancora più grande, distante qualche decina di metri.
Era la proprietà di un altro agricoltore: Angelo Bosxxxxx.
Avevo molta libertà di movimento, spesso mi allontanavo e arrivavo fino ad un fiumiciattolo cupo e limaccioso che scorreva lento, profondamente incassato tra due sponde scoscese. Portavo talvolta con me la mia “cassaforte”, una scatola di metallo che conteneva i miei tesori: diverse monete di pochi centesimi con l’effigie del Re e del Duce, dei bottoni, alcune palline di terracotta, una piccola roncola arrugginita e delle lamette usate, provenienti dal rasoio di sicurezza di mio padre o trovate per terra. Con queste ultime ero solito rifinire dei rametti a forma di “Y” con i quali mi costruivo delle fionde utilizzando, dopo averle tagliate a strisce, vecchie e rattoppate camere d’aria per biciclette.
Un giorno la lametta scivolò sul legno duro e penetrò profondamente, forse fino all’osso, nell’indice della mia mano sinistra. Il sangue sgorgava copioso, ma non me ne preoccupai eccessivamente. Ero abituato ai graffi, ai tagli ed alle cadute. Avvolsi la ferita, curando di riaccostarne i lembi, con delle foglie che tenni ferme con dei vinchi strappati alla sponda del fiume.
Com’era mia consuetudine non parlai dell’incidente ad alcuno e nessuno se n’avvide, ma per decine d’anni avrei portato su di me il segno di quella cicatrice.
Il mio lettino era stato posto ai piedi del letto matrimoniale dei coniugi Rxxxxxxxx. Era consuetudine della signora Svea che i figli, ed io con loro, andassero a riposare dopo aver pranzato. Era un’abitudine difficile da accettare perché ero talmente pieno d’energia e di voglia di correre ed esplorare che, naturalmente, non avevo un briciolo di sonno. Restavo quindi supino, con gli occhi sbarrati.Il sole battendo sulle lastre di pietra che ricoprivano l’aia riverberava fasci di luce sul soffitto dopo essere passato attraverso le fessure delle pesanti imposte di legno della finestra che era di fronte al mio letto.
Quelle strisce di luce si muovevano e cambiavano forma quando i contadini passavano nel cortile. Era per me uno svago osservare quei cambiamenti, quelle ombre in moto come in una lanterna magica, mentre alle mie orecchie arrivava il chiocciare delle galline ed il frinire ossessivo delle cicale che mi facevano cadere in una stuporosa sonnolenza.Nei primi giorni del mio arrivo presi a grattarmi furiosamente la testa, seguito ben presto da Maurizio ed Anita. Mi fu detto, con mia vergogna, che avevo portato tra loro i pidocchi.
Per diversi giorni la signora Svea frizionò a lungo la testa di noi ragazzi con del petrolio. Subito dopo ci avvolgeva il capo con degli asciugamani, enormi turbanti che dovevamo portare per tutto il giorno.In quel periodo uscivo prevalentemente la sera, quando il buio prendeva il sopravvento. Talvolta, addentrandomi tra gli alberi, scorgevo decine di faville luminose che danzavano contro il mantello della notte. Erano lucciole e con l’innocente crudeltà dell’infanzia mi divertivo a catturare al volo quei poveri insetti e li sfregavo tra le dita che, per qualche tempo, emanavano una flebile fantomatica fosforescenza verdastra.
La crudeltà, d’altronde, fa parte della vita. Avevo già notato alcuni polli, più grandi e grossi degli altri, che talvolta gonfiato il petto e rizzate le piume slanciavano il capo verso il cielo emettendo un roco e stonato chicchiriaménto. Le contadine più anziane, allora, ridacchiavano tra loro e commentavano: “I se ricorda de quand' i gera gai” (Si ricordano di quando erano galli).
Era di queste donne il compito di trasformare i poveri galletti in capponi. Munite di ago e filo ed armate di piccoli coltelli affilati, le donne sedevano su basse sedie impagliate in un angolo dell’aia e, tenendo ben stretti i giovani polli, con poche veloci ed abili mosse li privavano della loro virilità e dopo averli ricuciti li rimettevano in libertà. Con qualche flebile suono, quasi un gorgoglìo, le povere bestie muovevano qualche passo incerto e traballante, poi, come se nulla fosse successo, riprendevano a muovere a scatti la loro ottusa testolina e a becchettare il terreno in cerca di cibo.
Nella masseria a noi vicina, un fascista, che lavorava in paese, aveva una stanza ove si ritirava per dormire. Non ricordo con esattezza il suo nome, Bonetxx o forse Benexxx. Lo avrò visto due o tre volte in tutto. Spesso in divisa, con la pistola nella fondina del cinturone, tutte le mattine all’alba si recava a piedi alla Casa del Fascio di Maserà e ne tornava, talvolta, a notte fonda.Una sera, a cena, ascoltai i discorsi tra la signora Svea ed il marito. La sera precedente una banda di partigiani aveva teso un agguato al fascista, sparandogli contro. Questi, rimasto illeso, si era riparato lungo la sponda del fiume e, da quella trincea, aveva risposto al fuoco mettendo in fuga gli assalitori.
Non avevo mai visto la signora Svea, solitamente gaia e sorridente, così preoccupata. Evidentemente temeva per la vita del marito che, a sua volta, usciva presto tutte le mattine per recarsi a Padova, ove lavorava presso il Banco di R., e tornava tardi quando era ormai sopraggiunta l’oscurità.
Passarono alcuni caldi, assolati giorni. I contadini delle due masserie avevano già mietuto il grano ed ora spargevano i covoni sull’aia, ricoprendola di uno spesso strato odoroso e dorato; Quando il sole rese calde e asciutte le spighe, iniziò la trebbiatura. Tutti, uomini e donne, impugnavano il correggiato: un lungo bastone alla cui estremità era collegato, con una cinghia di cuoio, un bastone più corto e pesante.
Con grande perizia il correggiato era fatto roteare in aria e la mazza più corta si abbatteva con un tonfo sordo sul grano, separando la granella dalla pula. Il granaio era situato nell'immenso sottotetto della masseria. Qui era ammassato il frumento nell'attesa di essere portato al mulino e qui ricordo di aver giocato, di nascosto, con gli altri ragazzi della fattoria, nuotando e ruzzolando in quel mare odoroso, dorato e morbido, dal quale, talvolta, spuntavano gli occhietti vispi di un topolino campagnolo.
Una notte mi svegliai di colpo, destato da un lieve fruscio, la signora Svea, in camicia da notte, si era alzata dal letto e la sua figuretta si stagliava, illuminata dalla luna, contro la finestra. Poco dopo emise un grido sottile di stupore e di paura, quasi un lamento. Ricordo un turbinio d’avvenimenti: il balzo veloce del marito che, gettatosi dal letto, si slanciava su di lei gettandola a terra nel momento in cui il fascio di luce di una torcia elettrica proveniente dal cortile la illuminava.
Pochi attimi dopo, con uno scoppiettare secco, alcuni proiettili si conficcavano nella cornice della finestra e nel soffitto. Poi rumori per tutta la casa. Il fattore ed i suoi familiari, destati anch’essi dal sonno, stavano sprangando e barricando porte e finestre al pianterreno mentre alcuni di loro si precipitavano al piano superiore ed anche nella nostra stanza per controllare la situazione dalle finestre.
Per tutta la notte, fino alle prime luci dell’alba, risuonò il richiamo del fattore verso l’abitazione del suo vicino: “Angeiii… Bosxxxxooo…”, ma nessuno rispondeva. Quando il sole illuminò il paesaggio e si fu sicuri che in giro non vi era più nessuno, il fattore ed i suoi si recarono circospetti dal loro vicino. Angelo Bosxxxxo e tutti gli abitanti della casa furono trovati vivi ma legati ed imbavagliati.
I partigiani (ma erano veramente partigiani o facevano parte di alcune accozzaglie di sbandati che, in quegli anni vagavano per le campagne?) erano penetrati durante la notte forse allo scopo di catturare o uccidere il repubblichino Bonetxx, ma ancora una volta erano rimasti delusi. Per uno strano scherzo del destino il fascista, in quell’occasione, aveva pernottato altrove.
Amareggiati, gli assalitori si erano dovuti accontentare di un po’ di denaro, coperte, lenzuola e posate.
Poi tutto riprese come prima. I giorni trascorrevano lenti, caldi, assolati, lunghissimi. E’ straordinario quanto sia lunga una giornata quando si è fanciulli e quanto sia breve quando si è vecchi.. Verso la fine di luglio venne a prendermi mio padre. Pochi giorni prima, il 21 luglio, era nato il mio primo fratello. Non ero più figlio unico.
Ci recammo ad Este, per visitare mia madre in clinica e conoscere il nuovo arrivato. Mio padre, raggiante, mi mostrò il neonato nella sua culletta vicino al letto di mamma. Era piccolo, paonazzo e grinzoso.
Lo trovai orrendo ma balbettai diplomaticamente: “Com’è bellino”. Fuori, nel frattempo, ululavano le sirene che preannunziavano stancamente l’ennesimo allarme aereo.Tornai a Maserà per i pochi giorni necessari a mia madre per ristabilirsi. Infine, dato con sollievo un addio al riso cotto nel latte, ed un ultimo abbraccio alla signora Svea, fui ricondotto a casa a Galzignano.