giovedì 7 febbraio 2008

…chi mi ripaga le mie biciclette?…

Oggi andare da Galzignano a Torreglia è uno scherzo. Si imbocca la provinciale, si fanno quei tre o quattro chilometri e si è arrivati.
Oggi. Ma tra il 1944 ed il 1945?
In quell'epoca per fare quel tragitto occorreva percorrere circa sei chilometri di una mulattiera che correva tra collinette, boschi e torrenti. Un percorso bello e pittoresco da fare durante il giorno.
Sì, ma di notte? E con una guerra, sempre più atroce, in corso?
Le divisioni tedesche, agli ordini di Kesselring, avevano persa Rimini conquistata dalle forze alleate del generale Alexander, ed ora, per ordine di Hitler, avevano fortificata la cosiddetta "linea veneta" tra i colli Euganei. I tedeschi erano stanchi, ma sempre più ostili, determinati e sprezzanti. I repubblichini di Mussolini, per contro, sempre più disperati, arroganti e feroci. Ognuno, tra la popolazione, aveva ormai paura di tutto: degli altri uomini, dei bombardamenti, delle razzie, dei morti che sempre più numerosi si incontravano per via ridotti a brandelli dalle bombe o impiccati ad un lampione per una giustizia sommaria, con un cartello appeso al collo: - Ribelle-.

Il casolare di contadini, dove da tempo eravamo sfollati, si trovava in via del Calto, alla periferia di Galzignano. Tutte le mattine papà si alzava all'alba per arrivare a piedi fino a Torreglia dove poteva prendere una corriera che lo portasse a Padova ove lavorava.
La sera, e spesso a tarda sera, doveva rifare all'inverso lo stesso cammino.
La difficoltà dei collegamenti e, talvolta, l'impossibilità di far coincidere i suoi orari con quelli della corriera, lo indussero a preferire l'uso di una bicicletta per questi spostamenti.
Acquistare una bicicletta era fuori questione per le nostre magre finanze e quindi ne prese una in affitto. Tutti i giorni, due volte al giorno, macinava in sella i circa 20 chilometri che separano Padova da Torreglia ove riconsegnava la bici per affrontare a piedi il resto del cammino.
Col tempo aveva fatto amicizia con altre quattro persone che, anche loro in bicicletta, facevano lo stesso percorso fino a Torreglia. La strada la sera era buia, fangosa e piena di buche, fare brutti incontri o incappare in una scaramuccia tra partigiani e tedeschi era abbastanza probabile, e quindi viaggiare in compagnia dava loro una maggiore sicurezza ed il tempo passava più velocemente.
Io intanto, a Galzignano, quella sera, come al solito, stavo giocando in strada con i miei amici preferiti: Santina, Ines e Coriolano. Ognuno di noi si era costruito un "flandigoeo" (fionda) e con quello cercava di abbattere i "babastregli" (pipistrelli) che svolazzavano numerosi al di sopra di noi. Il tempo passava, ma noi, intenti al gioco, non ce ne rendevamo conto.
Ad un tratto sentii la voce disperata di mia madre che mi stava chiamando già da un po': "Sergioo, Sergiooo"
Corsi a casa, già rassegnato a subire l'ennesima bastonatura per il ritardo.
Ma quella sera mia madre non era preoccupata per me. Era atterrita perché si era fatto molto tardi e mio padre non arrivava.
Le ore passavano lente e mia madre, torcendosi le mani e con gli occhi sbarrati, camminava avanti e indietro mormorando con voce stridula "cosa sarà successo? Mio Dio, cosa sarà successo..."

LA MINACCIA DAL CIELO

Quel pomeriggio mio padre era uscito prima. Le sirene avevano suonato l'ennesimo allarme aereo e il lavoro era terminato.
C'era ancora il sole e papà con i quattro amici avevano inforcato le biciclette e si erano allontanati dalla città incuranti dei richiami dei miliziani che ordinavano loro di andare nei rifugi.
La lunga strada provinciale era deserta e loro pedalavano allegramente, lieti di poter tornare a casa in anticipo.
"Sapete " disse uno "quella vecchia strozzina della Mariangela ha detto che dobbiamo pagare di più per l'affitto delle biciclette!"
"Eh, sì" rispose un altro "Ora quei quattro soldi che pigliamo li diamo tutti a lei! Col cazzo. Già ieri ho dovuto pagare una somma esorbitante per avere un chilo di farina dai borsari neri"
"Ci vuole ancora un po' di pazienza, sembra che gli inglesi si stiano avvicinando. C'è molto nervosismo tra i kartofen"
"Già" disse papà"ma la situazione sta peggiorando. Ho visto che stanno facendo retate di vecchi, donne e bambini. Li caricano sui camion e via... chissà dove li portano?"
"Eh, be', in Germania, si sa. Li fanno lavorare nelle fabbriche di munizioni"
"Mah... non ne sono convinto. So che hanno deportata l'intera famiglia dei signori Camerini Rossi che abitavano ancora nel mio palazzo, a Padova... e i due nonni avevano quasi ottant'anni. Che lavoro vuoi che possano fare"
"Ma non è quella famiglia di ebrei? Gli ebrei sono sanguisughe e con tutti i soldi che hanno staranno certo meglio di noi" disse Toni, che era il più anziano ed era stato, in passato, un fervente fascista.
"Te si mona, Toni. Cossa te va a pensar... gli ebrei li copa (sei uno cazzone, Toni. Ma che cosa credi... gli ebrei vengono uccisi)" sibilò un amico.
"Anch'io temo che sia così" interloquì mio padre " e poi, cristiani o ebrei, siamo tutti esseri umani, no?"
"Silenzio!" ordinò Toni "sentite questo rumore? Sembra un aereo..."
"Sarà uno dei nostri..."
Papà fino a poco tempo prima era stato capitano nel 38° reggimento antiparacadutisti ed aveva l'orecchio allenato: "No, noi non abbiamo più aerei. Questo è un bombardiere americano! Presto, presto, nascondiamoci..."
Troppo tardi. Il pilota li aveva già avvistati e l'aereo iniziò una veloce picchiata mentre le sue mitragliatrici sputavano lingue di fuoco con un suono sordo.
Rattatà rattatà rattatà
Sassi scheggiati e nuvolette di polvere si sollevavano dalla strada mentre l'aereo si allontanava. I cinque uomini che si erano gettati a terra sul bordo, tra l'erba, schizzarono in piedi miracolosamente incolumi.
"Via, viaaa" gridò Toni "rifugiamoci in quella casa...di corsa...prima che ritorni"
Una piccola casa di contadini si intravedeva, tra gli alberi, a poca distanza. Correndo, con il fiato mozzo, raggiunsero la porta, che non era chiusa, ed entrarono. Un vecchio canuto, seduto vicino al grande camino li guardò con acquosi occhi sbarrati. Una giovane donna, pallida e smunta, comprese al volo la situazione: "vegnè, vegnè. Sentateve...nonno, daghe ‘na carega (venite, venite. Sedetevi. Nonno, dategli una sedia)".

IL BOSCO

A Galzignano era ormai notte fonda e mia madre era definitivamente in preda ad una crisi isterica, si agitava, si lamentava, si percuoteva il capo, si raccomandava a padre Leopoldo, un frate cappuccino morto da poco in odore di santità e del quale si raccontavano i numerosi miracoli. Ed era la cosa che maggiormente mi sbigottiva sapendo quanto poco religiosa ella fosse.
Io ero affamato, nessuno di noi aveva mangiato. Atterrito dal suo atteggiamento non comprendevo perché si preoccupasse tanto per il ritardo di mio padre. Papà era grande, forte, immortale e sicuramente non poteva accadergli nulla di male.
"esci Sergio, vai fuori...vedi se viene papà...domanda se qualcuno l'ha visto..."
Uscii di corsa, felice. Felice di allontanarmi da lei e felice di essere autorizzato ad uscire. DI NOTTE!
Naturalmente la strada era deserta, fiocamente illuminata da una immensa luna piena. Si udiva soltanto il mormorio del Calto, il ruscelletto che correva lungo il bordo della strada e che le aveva dato il nome. Qualche rana solitaria gracidava piano mentre un cane abbaiava in lontananza.
Invece di avviarmi verso il paese risalii la strada. Pochi metri più sopra c'era la fattoria di Udilla Santi, una deliziosa sprezzante ragazzetta di cui ero segretamente innamorato.
Nell'angolo destro dell'aia della famiglia Santi si trovava un'ampia tettoia sorretta da robusti pali di legno. Legata ad uno di quei pali, c'era Bianca che sentendo i miei passi si agitò inquieta. Bianca aveva il pelo rossiccio ed una lunga criniera nera. Aveva partorito da pochi mesi e vicino a lei si trovava il suo puledro. Girai alla larga. Poco tempo prima quel puledro mi aveva fatto un brutto scherzo; io mi ero avvicinato per carezzarlo, ma lui intimorito mi aveva sferrato un calcio in pieno petto. Ero caduto in terra senza respiro e per un tempo che mi era sembrato interminabile non ero riuscivo a tirare il fiato ed a respirare. Ero ormai con la vista annebbiata quando riuscii a inspirare un poco d'aria nei polmoni e, da allora, mi tenni sempre a rispettosa distanza da quei cavalli.
Lentamente mi avvicinai alla fattoria con l'assurda speranza di vedere Udilla, ma naturalmente la casa era cupa e scura e nessuna candela accesa trapelava dalle finestre.
"Cossa ze che te fe a ‘sta ora (cosa fai qui a quest'ora)" Sobbalzai spaventato da quel vocione burbero e improvviso. Nascosto dal buio, seduto in un angolo della veranda a fumare la pipa, c'era il vecchio ‘paron' Beppe Santi. Il vecchio era analfabeta e scorbutico come tutta la sua famiglia, ma mi tollerava. Aveva scoperto con estrema meraviglia che sapevo leggere e scrivere e in diverse occasioni mi aveva chiesto di leggere e rileggere le rare lettere che aveva ricevute dal figlio, combattente in Russia con la divisione Julia.
Dondolandomi ora su una gamba ora sull'altra, gli riferii del ritardo di mio padre e dell'angoscia di mia madre. Nel contempo gettavo un occhio rapido alle finestre nella speranza di vedere Udilla.
Il vecchio borbottò qualcosa di incomprensibile tra i denti. Compresi che imprecava e mi sembrò, con orrore, di sentirlo dire "quel porco di Mussolini". Poi sputò per terra e, allungata una mano verso un tavolino, mi porse una grossa fetta di polenta. "va a casa va. Va da to mare (vai da tua madre)".
Mi allontanai sconcertato, divorando avidamente quella deliziosa polenta, ma invece di andare verso casa continuai a risalire la strada fin quando non divenne un sentiero che si addentrava nel bosco.
Conoscevo bene quel posto, molte volte ero risalito con un amico e le sue capre fin oltre il bosco ove c'era un prato adatto al pascolo, ma di notte era diverso. Gli alberi nascondevano la luna ed il buio era sempre più fitto e pauroso. Affrontai la paura continuando a procedere. Sciami di lucciole si inseguivano nell'aria, ovunque si udivano fruscii di animaletti e, a tratti, il verso lugubre delle civette.

UNA PREMONIZIONE PROVVIDENZIALE

Seduti intorno al tavolo i cinque amici tacevano, col viso ancora sbiancato per spavento subito. La donna si avvicinò con cinque bicchieri ed una bottiglia di vino. Ma mio padre si agitava, inquieto.
"No, grazie" disse "non sono tranquillo... voglio uscire..."
"Ma dai... perché? Qui siamo al sicuro..."
"No, no. Fate come volete ma io esco e torno a casa..."
"Vengo con te anch'io" rispose Toni mentre gli altri, scuotendo la testa si versavano il vino.
Fuori le ombre della sera iniziavano ad allungare le loro braccia. Papà e Toni avevano quasi raggiunto le biciclette abbandonate sul bordo della strada, quando il rombo lontano dell'aereo, che era stato attutito da una collinetta, divenne più forte e minaccioso e il mostro riapparve improvviso nel cielo.
"Via, via, torniamo alla casa!" gridò Toni, ma mio padre cominciò a correre a perdifiato verso una macchia d'alberi e Toni, dopo una breve esitazione lo seguì.
L'aereo volava a bassa quota e sembrava riempire il cielo con la sua mole; arrivato a poca distanza dalla casa lasciò cadere il suo carico mortale. Con un immenso fragore il vecchio casolare si polverizzò e lo spostamento d'aria colpì come un maglio la schiena dei due uomini in fuga disperata.
Mio padre, più giovane e più veloce, riuscì a resistere e continuò a correre, Toni, più anziano e più lento cadde a terra.
Il pilota dell'aereo aveva ben pianificata la sua gloriosa azione, quasi contemporaneamente alle bombe che avevano distrutto la casa lasciò cadere delle granate anti-uomo.
Caratteristica di queste granate era quella di esplodere al contatto con la terra e di lanciare a raggiera a pochi centimetri dal suolo una miriade di schegge.
Papà sentì come una frustata in una gamba ma continuò a correre e si gettò a terra sotto gli alberi.
Lontano, sempre più lontano, l'aereo scomparve all'orizzonte.
Il tempo scorreva lento, interminabile. Il mondo sembrava essersi fermato, papà restava immobile quasi incredulo di essere ancora vivo, poi cominciò ad avvertire altre sensazioni, percepì di avere una scarpa piena di un liquido appiccicoso, guardò il suo piede: sangue!
La parte inferiore del suo pantalone era stracciata e piena di sangue; una scheggia l'aveva ferito al polpaccio ma non percepiva ancora nessun dolore.
Con calma, quasi trasognato, trasse un fazzoletto dalla tasca e lo legò strettamente intorno allo strappo. Poco distante giaceva Toni con la faccia tra l'erba.
"Toni, Toni...Toooni" Nessuna risposta. Con un sforzo mio padre si alzò e, zoppicando si avvicinò all'amico. "Toni...mio Dio, Toni".
Silenzio.
Solo le dita di Toni artigliavano ancora, impercettibilmente, la terra. Una scheggia l'aveva colpito alla nuca e gli aveva asportata parte della calotta cranica. Toni era morto.
E la casa? Solo qualche muro sbrecciato e delle travi ancora in fiamme. Il vecchio, la donna, gli altri tre amici...nessun sopravvissuto.
Inebetito, e come in trance, papà raggiunse la strada e raccolse la sua bicicletta. Torreglia era abbastanza vicina e in lontananza si intravedevano appena, illuminate dagli ultimi raggi del sole morente, le prime case.
Con uno sforzo si rimise in sella. La strada era leggermente in discesa e la bici si mise in moto. La cittadina si avvicinava sempre più. Ecco, si incominciava a vedere qualcuno, ancora un po', ancora qualche metro, qualche metro ancora... e mio padre svenne.
Riprese i sensi su di una barella in una stanzetta dalle mura scrostate, alcune candele illuminavano fiocamente l'ambiente. Il pantalone era stato tagliato sotto il ginocchio e il polpaccio fasciato. Un anziano medico si avvicinò: "Lei è stato fortunato, la scheggia ha attraversato i muscoli ed è uscita senza ledere l'osso. Tra un mesetto sarà come nuovo!".

IL GIGANTE

Un soffio di vento percosse gli alberi del bosco. I rami si agitarono frusciando e il sottobosco si animò di rumori e strani fruscii. Mi venne in mente un film di Walt Disney che avevo visto qualche anno prima e le immagini di Biancaneve nella foresta con gli alberi che si animavano minacciosi e tendevano i rami per afferrarla. La paura prese il sopravvento, mi girai e ripresi il cammino, ma questa volta verso casa.
Il buio era sempre più fitto ed anche la scarsa luce lunare che filtrava tra le foglie si era ridotta per qualche nuvola di passaggio. Anche le lucciole erano scomparse. Strinsi i denti e mi imposi di non correre, - non ho paura, no, non ho paura - ripetevo tra di me.
Mi accorsi di essermi perso, mi aggiravo tra rami e cespugli senza sapere più dove fossi e mi prese il panico.
Poi, d'improvviso, il vento spazzò via le nuvole, la luna riapparve ed ecco, a poca distanza, la striscia bianca del sentiero.
Questa volta non mi trattenni, corsi, corsi velocissimo ed in pochi minuti fui fuori dal bosco. Rallentai il passo e mi avviai verso casa, l'avevo quasi raggiunta quando in lontananza, illuminata dalla luce lunare, vidi una sagoma bianca che risaliva lentamente la strada.
La sagoma divenne sempre più grande e nitida: un gigante! Sì, un gigantesco giovane col camice bianco che, in piedi, pigiava faticosamente i pedali di una bicicletta sulla cui canna era seduto... mio padre!
Gridai, ed al mio grido fece eco quello di mia madre che uscì precipitosamente da casa ed aiutò quel generoso colosso di infermiere a portare mio padre nel suo letto.
In seguito papà ci spiegò che in quel piccolo centro della Croce Rossa, ove dei passanti l'avevano trasportato, aveva incontrato quel giovane che gli era venuto incontro sorridendo raggiante: "Capitano, come si sente capitano?"
Si trattava infatti di uno dei tanti suoi soldati che dopo l'8 settembre del 1943 lui aveva aiutato ad indossare abiti civili, distribuendo quei pochi che gli erano rimasti in casa, per consentire loro di fuggire e sottrarsi alle rappresaglie dei tedeschi.
In quel caso particolare aveva incontrato molte difficoltà a trovare qualcosa della giusta misura a causa dell'enorme mole di quel soldato.
Quindici, o forse venti giorni dopo, il gigante, che abitava a Torreglia, tornò a visitare mio padre che stava già molto meglio.
"E la bicicletta..." chiese papà "l'hai riconsegnata alla Mariangela?"
"E già" sogghignò il giovanotto.
"Cosa ha detto?"
"Quella vecchia strega ha detto: -qui l'unica vera danneggiata sono io. Ed ora chi me le ripaga le altre mie biciclette che non si sono trovate più? "