venerdì 3 aprile 2009

LA PATTINATRICE DI SHENKLEY PARK


Il mio vecchio amico Conte Engel Von Waldreihausen mi ha raccontato un'altro dei misteriosi avvenimenti accaduti durante i suoi avventurosi viaggi.

PERCHE' ?

La vita può apparire monotona e povera di nuovi eventi solo agli occhi di chi è tanto insensibile o idiota da non riuscire a guardarla con la giusta attenzione. L'ignoto, l'imprevisto e l'inconoscibile sono sempre dietro l'angolo, pronti a manifestarsi dinanzi a noi senza che - il più delle volte - non ce ne rendiamo neanche conto.
Nei momenti di noia, di scoramento o di semplice cattivo umore, l'episodio della pattinatrice di Shenkley Park mi riporta in mente ad un periodo estremamente stimolante della mia vita, alle persone che ne fecero parte ed al mistero che vi penetrò bruscamente ed in modo duraturo.
Trascorrevo, molti anni fa, alcuni mesi a Pittsburgh, in Pennsylvania, per seguire un corso post-universitario di gestione aziendale presso una prestigiosa, anche se non proprio antica, Università colà fondata alla fine del secolo scorso da due facoltosi uomini di affari passati alla storia del loro Stato, se non anche del loro Paese. La mia buona conoscenza dell'inglese, unitamente alla discreta preparazione di stampo matematico e statistico che mi ero fatta all'inizio del mio rapporto lavorativo presso il Dipartimento di ricerche dell'Istituzione presso cui ancora lavoravo, erano stati i motivi di base della scelta del mio nominativo fra quelli dei numerosi altri colleghi che avrebbero potuto esservi inviati. Non che vi fossero potenziali limiti di numero da parte dell'Università o del mio datore di lavoro; il problema era che, per motivi diversi e non più interessanti per alcuno, il tempo della designazione stringeva e non consentiva di fare una selezione dei possibili candidati a quello che era considerato una carta in più ai fini della futura carriera in seno all'Istituzione stessa.
Ovviamente avevo accettato con curiosità e quasi come una sfida l’incarico affidatomi, soprattutto perché un caro Amico e Collega che aveva partecipato al Corso l'anno precedente mi aveva descritto come "massacrante" l'impegno che esso richiedeva.
E aveva perfettamente ragione, anche se, per molti altri aspetti, esso si rivelò talmente interessante e coinvolgente da non farmi quasi accorgere delle nottate quasi in bianco trascorse sui libri, delle serate passate davanti al terminale del sistema elaborativo od in accalorate riunioni del gruppo di lavoro in cui ero stato inserito.
Le lezioni impegnavano sei giorni su sette, ma per motivi d’igiene mentale avevo deciso che le mie domeniche non dovessero essere riservate al riposo "riparatore" del sonno perso durante gli altri giorni, bensì all'evasione e alla ricognizione delle attrattive che la città potesse riservare. Era divenuta quindi mia buona abitudine uscire di buon mattino dall'albergo - non lontano dall'Università - per scendere "downtown" in città ed aggirarmi fra punti noti e meno noti di riferimento al fine di "capire" questi americani, così strani agli occhi di noi europei.
Qualche volta, bisognoso di relax e di movimento, mi recavo a passeggiare nello Shenkley Park, prossimo al "campus" universitario, a godermi i colori dell'inverso, il lindore della neve fresca e l'osservazione degli scoiattolini chipmunk che guizzavano agilmente fra i rami.
Fu una di quelle volte, che mi accadde di vedere qualcosa il cui ricordo permane ancora vivido nei miei occhi, oltre che nella mia memoria.
Sullo specchio d'acqua gelato prospiciente una fontana ornamentale - un laghetto di pochi metri di diametro - una bambina bionda, coi capelli raccolti in una cuffietta di lana bianca ed il tutù classico che le lasciava scoperte le esili gambette infantili, eseguiva eleganti evoluzioni su pattini metallici che brillavano come fossero d'argento polito. I suoi movimenti erano aggraziati ed agili, propri di chi ha molta più esperienza e padronanza del proprio apparato muscolare di quanto non sia da attendersi dall'età dimostrata dalla bambina. La sua figuretta sottile, ben delineata dal costumino celeste che l'avvolgeva, si stagliava contro lo sfondo candido della neve che abbondante ricopriva la fontana ed i bordi della vasca dinanzi ad essa. Non ho mai visto un angelo, ma quando essi si mostrano, sono certo che non possono essere più leggiadri, eleganti e sciolti di quella ragazzina nel movimento e nella gestualità.
I pochi raggi di sole che filtravano fra il fitto fogliame degli alberi intorno alla fontana la illuminavano a sprazzi conferendo alla scena una luce d'irreale e di fabuloso mentre la bambina ricamava sul ghiaccio del minuscolo specchio d'acqua ghirigori complessi e luminescenti in toni madreperlacei.
Restai incantato per oltre un quarto d'ora a guardarla, e ad un tratto essa si accorse di me, si voltò nella mia direzione, e mi sorrise. Ricordo ancora il suo radioso sorriso, che l'assenza di un incisivo superiore arricchiva, anziché deturparlo, e rendeva ancora più tenero e dolcemente infantile.
Le sorrisi in risposta ed accennai un applauso dicendo ad alta voce "brava!". Deve avermi capito, perché il suo sorriso si allargò ancora.
D'improvviso, sentii una voce alle mie spalle che chiamava il mio nome: "Engel!"
Mi voltai per riconoscere il proprietario della voce, ed incontrai il viso sorridente di Bill Robinson, dirigente di una grossa Corporation di Los Angeles che frequentava il corso con me.
- "Ma che fai, parli da solo? La vecchiaia è brutta, eh?" mi disse continuando a sorridere .
Gli strinsi la mano, pensando una volta di più che gli americani sono matti. Sudato, con i capelli scompigliati, leggermente ansimante nella fresca aria del mattino, Bill vestiva una tuta da ginnastica con la quale - non era la prima volta che lo vedevo così conciato - faceva jogging quasi tutte le mattine prima delle lezioni, malgrado i suoi non più verdi anni.
Ricambiando il sorriso gli risposi :
- "Non ti ho sentito venire. Ero solo incantato a guardare quella ragazzina che pattina sul ghiaccio: è piccola, ma è davvero brava!"
Mi volsi allo stesso tempo in direzione della fontana, e rimasi come un allocco mentre Bill commentava:
- " Anche peggio, ragazzo mio : hai pure le allucinazioni! Devi farti visitare da uno strizzacervelli”.
Aveva ragione.
Lo specchio gelato dinanzi alla fontana era del tutto deserto, e la sua superficie era liscia e tersa senza che una minima traccia ne rigasse la superficie.
-" Ma... - balbettai - eppure l'ho vista... "
- " Va là - ribatté Bill - forse cominciano a mancarti le tue figlie ed immagini di vederne una solo perché le vorresti vicine a te anche qui".
Pensai che fosse meglio lasciar cadere la cosa, e cambiai discorso chiedendogli se non sentisse freddo, e come mai almeno la domenica non facesse una dormita più lunga del solito.
Chiacchierammo di futilità per due o tre minuti, poi Bill mi lasciò per riprendere il suo jogging prima che il sudore gli si gelasse addosso.
Andato via lui, rimasi qualche minuto solo, dinanzi alla fontana, con la mente piena d'interrogativi senza risposta, guardando e riguardando la superficie della fontana su cui qualche foglia secca degli alberi circostanti cominciava a posarsi delicatamente. No, ne ero certo, avevo visto la bambina, l'avevo ammirata a lungo, e il fatto che non una benché minima traccia dei suoi pattini fosse rimasta impressa sul ghiaccio non significava e non poteva significare che avessi avuto un'allucinazione.
Mi allontanai dalla fontana e dal parco, e continuai per alcune ore a portare negli occhi - come faccio tuttora a venti e più anni di distanza - quella visione dolcissima e, ogni minuto di più, evanescente.
La realtà prese il sopravvento. Le lezioni, i gruppi di lavoro, le conferenze che facevano da corollario al Corso e la vita di ogni giorno con i mille impegni che comportava, mi tennero la mente lontana dalla mia visione per alcune settimane.
Poi, venne il long week-end. Un fine settimana su quattro il fine-settimana cominciava il giovedì pomeriggio per dar modo ai partecipanti al corso che abitavano meno lontano degli altri di tornare a casa per stare un po' con le loro famiglie. D'altronde, l'età media dei partecipanti stessi era tale che la stragrande maggioranza di essi aveva già famiglia.
Il fatto di trovarmi a settemila chilometri dal mio Paese, e l'entità del costo di un passaggio aereo fino in Germania e ritorno, mi escludevano dal numero dei fortunati che potevano godere di quel privilegio, sicché accettai l'invito del Decano della Facoltà ( un pittsburghiano da tre generazioni di rara intelligenza e di ancor più rara cultura, una vera eccezione per lo standard culturale statunitense) ad andare con lui in auto a far visita al fratello in un paesino ad una cinquantina di chilometri dalla città.
Ebbi così modo di vedere anche l'interno della Pennsylvania, i suoi boschi di alberi alti e scuri, quasi tutti pluricentenari, ed il fluire tumultuoso dei fiumi che attraversano lo Stato. Sia il Monongahela che l'Allegheny, che ancora recano i nomi loro dati dalle tribù dalla pelle rossa che abitavano quell'area all'arrivo dei primi coloni americani, confluiscono tumultuosamente a formare il fiume Ohio proprio a Pittsburgh, e la lingua di terra che ne costituisce l'ultima separazione viene detta la Golden Point, la Punta d'Oro. Per tutto il loro corso, che non è poi così lungo né per l'uno né per l'altro, essi presentano una pendenza abbastanza sensibile da renderne veloci e spumeggianti le acque, che si schiantano fragorosamente sulle numerose rocce che ne costellano il letto e levano alti spruzzi gelati. Solo in alcuni tratti, la minor pendenza ne rende più tranquillo lo scorrere, formando in alcuni tratti delle anse più larghe e calme, che nei mesi invernali gelano e si prestano al pattinaggio.
Su una di queste rare anse si trovava il paesino dove viveva il fratello di Bernie, il Decano della Facoltà che mi aveva invitato a questa breve gita.
James, detto Jimmie, si chiamava questo fratello, o meglio, il reverendo James, dato che era pastore di una delle tante sette protestanti che allignano nel Nord America. Una setta battista, se non ricordo male, che in quella zona rurale e forestale degli Stati Uniti aveva messo radici da prima della Rivoluzione e, data la spartana economia locale, vivacchiava dando al suo pastore sì e no il minimo indispensabile alla sopravvivenza.
Arrivammo giusto in tempo per la funzione nella cappella parrocchiale, ed andammo a sederci su una delle poche, consunte panche, dello stesso legno delle pareti, che erano le uniche suppellettili del luogo di culto.
Al termine della funzione, Jimmie abbracciò il fratello prima di uscire sulla soglia a salutare i suoi parrocchiani - che ancora sorridenti per le due o tre battute intelligenti che egli aveva inserito nel sermone domenicale, gli dettero anche abbondanti pacche sulla schiena - e mi presentò alla moglie, Annie. Era, costei, una donna esile, dolce nello sguardo e nei modi, che non mi sono mai spiegato come abbia potuto dargli due figli, due ragazzoni ben piantati che davano anche loro una mano nella cappella - uno suonando l'organo e l'altro raccogliendo le offerte dei fedeli - e che avevo già visto durante la funzione.
Naturalmente, data l'ora, ci invitarono a pranzo, ed attraversando un tratto di bosco arrivammo alla casetta, linda ed ordinata, che a distanza di poche centinaia di metri, nel mezzo di una radura, rappresentava la canonica.
Jimmie sfoderò quel poco di tedesco che aveva imparato a biascicare da un parrocchiano dedito all'alcool, e nel giro di pochi minuti tutti fummo coinvolti in una animata conversazione - a tratti in inglese ed a tratti in tedesco - su argomenti i più disparati e simpatici.
Finito il pasto, frugale anche se nutriente, noi tre uomini andammo in salotto per mandare giù un bourbon ed accendere le nostre sigarette, Annie andò in cucina a rigovernare, ed i due ragazzi salirono a cambiarsi "per la partita". Tornarono con le mazze da hockey ed i caschi sotto un braccio, e gli scarponi coi pattini sotto l'altro, e rammentarono al padre che aveva promesso loro di andarli a vedere giocare.
- "E noi, non ci volete?" chiesi loro.
Si profusero in scuse, e dissero che naturalmente eravamo più che graditi ospiti, e che anzi sarebbe stato per loro gratificante avere altri due tifosi dalla loro parte, poiché la squadra locale non era poi famosa...
Così, dopo qualche altra sorsata del rovente liquore (fatto in casa da uno dei suoi parrocchiani, disse Jimmie) e le ultime boccate di fumo delle nostre sigarette, seguimmo verso il fiume i due ragazzi che si erano già avviati.
L'aria era tersa e ferma. Il silenzio del bosco intorno a noi era rotto ogni tanto dal tonfo della neve che cascava a blocchi dagli alti rami dei pini e degli abeti per confondersi con l'altra che fino a poche ore prima era scesa dolcemente a coprire il suolo. Il canto di un isolato uccello (una cinciallegra, mi dissi) sembrava l’assolo di un virtuoso e si perdeva nella distanza senza essere riecheggiato da alcun ostacolo solido. Il cielo era tornato limpido, luminoso tanto da far male agli occhi, e la pace più completa avvolgeva il mondo intorno a noi.
Dopo un po' che camminavamo, avvertimmo dinanzi a noi il rumore di molte voci e risate, ed al di là di una curva del sentiero vedemmo la riva su cui un centinaio di persone era raccolto ai margini di un tratto gelato dell'ansa del fiume.
Il campo da hockey era, infatti, un tratto dell'ansa che, cintato con una rudimentale barricata di assi di legno, i ragazzi del luogo usavano per le loro domenicali disfide sul ghiaccio contro i loro coetanei dei villaggi vicini.
La partita cui assistemmo fu dunque poco più che una ragazzata, in cui tutti i contendenti dell'una e dell'altra parte facevano del loro meglio per colpire - senza grandi risultati - il dischetto di legno, e questo insisteva per andare per i fatti suoi in tutte le direzioni tranne che in quella giusta.
Ci sgolammo, naturalmente, per incoraggiare i ragazzi del luogo, e a lungo li applaudimmo ogni volta che l'infernale dischetto decideva di sua volontà di andare ad infilarsi in una delle due porte ignorando gli sforzi difensivi del portiere di turno.
Era previsto, mi dissero, che subito dopo la partita seguisse una breve dimostrazione di pattinaggio. Passarono, infatti, alcuni pochi minuti dopo l'ultimo applauso agli eroi del giorno, e da un'auto parcheggiata sulla riva, emerse una figurina in azzurro, col tutù classico ed i capelli raccolti in una cuffietta bianca di lana. Eccola, la mia visione di Shenkley Park! Non riuscii più a contenermi.
- "Ma..." sbottai in direzione di Jimmie.
- "E' mia nipote Lucy, o meglio la nipote di Annie, ed è veramente brava; guardala!"
Ed era veramente brava, come già sapevo da oltre una settimana. La semplicità, l'armonia e la scioltezza dei suoi movimenti di danza sul ghiaccio erano almeno pari all'eleganza del suo scivolare sulla liquida superficie ghiacciata. Nel silenzio ammirato con cui noi tutti seguivamo dalla riva il suo volo da farfalla, solo il fruscio dei pattini sul ghiaccio, e il sibilo della superficie che si scheggiava in una miriade irideggiante di schegge erano percepiti come reali. Il resto era solo favola.
Lentamente, Lucy aumentò la velocità delle sue evoluzioni e il raggio delle curve che compiva, allontanandosi dalla recinzione del campo da hockey verso il fiume che a poche decine di metri faceva vedere le sue acque scure e placide nell'abbacinante luce del pomeriggio.
Una voce di donna ruppe l'incantato silenzio .
- "LUCY, non ti allon.... DIO!"
Ma la tragedia si era compiuta. Il ghiaccio era troppo sottile, in quel punto, per reggere il sia pure piccolo peso di Lucy, e con un sinistro scricchiolio aveva ceduto sotto la bambina lasciando che il suo minuto corpicino fosse accolto dall'abbraccio della gelida acqua del fiume.
Ricordo, come un incubo, la figura della madre di Lucy che si slanciava verso la nera voragine che aveva inghiottito la bambina, ed i ragazzi e tutti gli spettatori della partita che la raggiungevano per trattenerla dallo sprofondare anche lei sotto il ghiaccio sottile. Ricordo che io stesso correvo verso il fiume, scivolando sulle suole di cuoio e avendo negli occhi il sorriso sdentato di quell'altra Lucy, quella della mia visione. E ricordo l'arrivo dei Vigili del Fuoco col motoscafo e le lunghe pertiche, il loro scandagliare il fondo per cercare almeno di recuperare le povere spoglie della bambina.
Non ricordo nulla del nostro ritorno a Pittsburgh, del mio rientro in albergo, della ripresa delle lezioni il giorno dopo, né di ciò che accadde nelle successive due settimane.
La mia memoria è ancora vuota fino al giorno che il Decano mi fece chiamare nel suo studio durante una delle lezioni pomeridiane, per dirmi che avevano trovato il corpo di Lucy, e per chiedermi se volevo andare con lui all'obitorio per salutare Jimmie, Annie e la sorella di quest'ultima convocati colà per il riconoscimento del cadaverino. Gli avevo narrato della mia visione, ed era rimasto molto scosso sia per l'episodio di per sé che per la commozione che rompeva la mia voce nel narrarglielo. Accettai.
Trovammo i tre nella sala d'attesa e con loro entrammo nella sala dalle pareti coperte di candide piastrelle di maiolica su cui si aprivano gli sportelli delle celle frigorifere contenenti i poveri resti degli sventurati che avevano trovato una morte violenta.
Un inserviente che masticava chewing-gum (Dio lo maledica! Dissi fra me e me) trasse verso di sé la lettiga su slitta di uno degli sportelli in basso, e sollevò un telo verdino che copriva un piccolo corpo. E per la terza ed ultima volta rividi la Lucy della mia visione.
Immobile, violacea ancora dal momento della morte per asfissia, e priva ormai dell'eleganza angelica con cui l'avevo vista sfiorare la superficie gelata della fontana e dell'ansa del fiume, Lucy aveva ancora il tutù azzurro e la cuffietta di lana bianca. E fra le labbra dischiuse s’intravedeva ancora il vuoto di un incisivo superiore caduto che non sarebbe stato mai più sostituito.
La guardai solo una volta, e non avrei dovuto. Preferisco ricordare il suo sorriso dolce, infantile rivoltomi dalla fontana di Shenkley Park, che non il vuoto sguardo dei suoi occhi azzurri ancora aperti a guardare senza vedere, irrigiditi nello stupore della morte.
Ecco perché non mi piace più vedere alla televisione le manifestazioni di pattinaggio. Ed ecco perché, davanti a ciò che non riusciamo a spiegarci - e che forse resterà sempre inspiegabile per noi - non posso ancora fare a meno di chiedermi ogni volta :

PERCHE'?

La vita cambia e si rinnova ad ogni secondo che la viviamo. L'ignoto è intorno a noi e dentro di noi. Non mi parlate di noia!