sabato 31 maggio 2008

STASERA, FRA MILLE ANNI....

Ho rivisto, dopo molti anni, il mio vecchio amico Conte Engel Von Waldreihausen. Spirito inquieto e avventuroso ha viaggiato moltissimo ed ha investigato e raccolte numerosissime storie e leggende, oltre a stranissimi fatti ed allucinanti esperienze provati personalmente. Ho chiesto ed ottenuta la sua autorizzazione a rendere partecipi i miei amici di una delle sue storie. Eccola:


Il monachino di Ulm

Rudolph di Wolfgang da Erfstadt, questo era stato il suo nome fino a dieci anni fa, prima che il padre decidesse che toccasse a lui, secondogenito, diventare monaco, e chiedesse al Priore del Monastero di Bonn di farlo ammettere al convento.
Pochi anni ormai mancavano al millesimo anno dalla nascita di Cristo, e la profezia "Mille e non più mila...." era scolpita a lettere di fuoco nella mente di ognuno: quale migliore garanzia di eterne salvezza dagli orrori dell'Inferno, se non un figlio che, giorno dopo giorno, pregasse per l'anima tua e degli altri membri della famiglia? E chi, se non il secondogenito poteva provvedere a ciò, visto che il primogenito doveva aiutare nei campi e già era lontano le mille miglia da qualsiasi idea di convento, ubriaco com'era di birra ogni sera e donnaiolo per giunta come pochi altri giovani di Erfstadt?
Quella del vecchio Wolfgang (vecchio sì), si disse Rudolph pensando ai quaranta anni sonati del padre, ai capelli quasi bianchi ed alla gamba secca ed immobile che si trascinava da sempre, da quando lo ricordava.
Wilfried, il Priore del monastero di Bonn, aveva accettato Rudolph fra i bambini che giocavano e - a tempo perso - imparavano a biascicare preghiere ed a leggere qualche riga in latino nel cortile del Monastero, ed aveva detto a Wolfgang che a tempo debito, dopo che Rudolph avesse "cambiato voce e cresciuto la barba" avrebbe provveduto a farlo iniziare nell'Ordine ed inserito fra quelli che, a formazione ultimata, sarebbero stati ordinati Sacerdoti ed avrebbero dovuto disperdersi nelle vuote campagne intorno al Reno.
"Se non muore", era stata la sua riserva mentale pensando agli innumerevoli altri bambini che aveva trovato mille mattine d'inverno irrigiditi e pallidi sotto i pochi stracci che servivano loro da coperte.
Erano finiti i tempi in cui Karl der Grosse, l'illuminato imperatore dei Französische aveva generosamente dissipato il suo tesoro personale per incoraggiare le vocazioni e ricostruire i monasteri ed i conventi dati a fuoco dai Sassoni. Ora, i monasteri, i conventi, e persino le ricche abbazie con rendite da migliaia di miglia quadrate di fertile campagna, dovevano provvedere da soli a tutto: dalla formazione dei monaci al loro vitto ed alla costruzione di edifici rudimentali per ospitarli, oltre che naturalmente alle chiese.
Un paio di braccia in più servivano sempre, e poterne disporre senza doverle pagare era comunque conveniente, "Sia lode al Signore!", pensò Wilfried.
Così Rudolph, a soli sei anni di età, aveva indossato un rudimentale piccolo saio di grigia lana dozzinale, pruriginosa e che ben poco isolava dai rigori invernali, ed aveva ruzzato per qualche anno nel cortile del Monastero, sotto il vigile sguardo del padre guardiano - Frà Otto da Mainz - fino a che le sue guance si erano coperte di pelurie e la sua voce, da stridula ed infantile che era, si era trasformata in una bella voce da tenore, utilissima per cantare tre volte al giorno le lodi dell'Altissimo.
Era stato allora, l'anno prima, che il vecchio Wilfried dal capo calvo come un vecchio otre da vino, l'aveva convocato nella stanza da cui dirigeva con mano di ferro il Monastero, e tenendolo in piedi gli aveva detto di essere sicuro che lui, Rudolph, volesse essere ormai ordinato Sacerdote e lasciare il Monastero per iniziare la sua missione nel mondo. Come dirgli di no, che c'era una delle ragazze del borgo dalle lunghe gambe snelle e dagli occhi grandi e liquidi che lo guardava come un principe ?
Rudolph aveva annuito, ed il Priore gli aveva annunciato che quanto ambiva sarebbe accaduto di lì ad un mese, dopo di che la sua partenza sarebbe seguita entro due giorni per il convento di Heisterbach.
E così era stato.
Ora era uno dei quattro monaci che, a turno, celebravano l'Uffizio all'alba, all'Angelus, a compieta e la notte per i frati del piccolo convento di Heisterbach. Era uno dei pochi nel convento che, anche se non sempre comprendeva tutto dell'onnipresente latino, era comunque in grado di leggere e, con sforzi enormi, anche di scrivere le poche righe quotidiane di cronaca e di contabilità scarna del convento.
Né gli altri sacerdoti erano meglio di lui, o lontanamente prossimi all'eleganza della grafia del Priore di Bonn o degli amanuensi della lontana Colonia.
A via di averla ogni giorno sotto gli occhi durante i due - non sempre due - pasti quotidiani, la cosa che meglio di tutte riusciva a leggere, ed ogni volta con un sorriso sulle labbra, era la scritta in alto sulla parete intonacata del refettorio.


"IN GOTTES AUGEN TAUSEND JAHRE SIND WIE EIN TAG "
"Agli occhi di Dio, mille anni sono un giorno"

Che poteva mai significare, si chiedeva ogni volta con stupore e quasi con ironia. Il tempo è il tempo, uguale per tutti, da Dio alle formiche. "C'è un tempo per piangere e un tempo per gioire,...- citava a memoria dalla Bibbia - "...un tempo per vivere ed uno per morire..." Si, c'è un tempo per tutto e per ogni evento, ma soprattutto c'è un tempo per tutti, uomini e donne, Dio e Satana, padri e figli, nascita e morte.
Che aveva voluto dire l'ignoto fratello che aveva scritto quelle frase quasi blasfema sulla parete?
Anche ora, solo in piedi in cima alla collina che sovrastava il convento, con una vecchia copia sdrucita e malconcia dei Vangeli in mano - quanto amava quel libro, pensava, che Fra' Jorg da Rudesheim gli aveva donato - si ripeteva nella mente tutti i ragionamenti fatti su quella strana frase.
Il suo sguardo vagava sulle campagne d'intorno, e di tratto in tratto si lasciava affascinare dal lungo nastro azzurro del Reno, che nella vallata a si e no due miglia da lui, scorreva placido verso il Nord.
A distanza di qualche minuto, agili imbarcazioni a vela lo solcavano, dirette tanto a Nord quanto a Sud, coi loro larghi fianchi pieni di otri di vino, di sacchi di grano, di attrezzi di grigio ferro e sa il Cielo di quali spezie e quali meraviglie. In poche ore il vento le avrebbe sospinte verso i sobborghi di Brühl ed infine a Colonia, oppure verso Koblenz, Nainz e la leggendaria Heidelberg, nel lontanissimo Sud.
Il pensiero gli vacillò nello sfiorare l'idea di una lontananza così grande dal suo villaggio natio. Già venire a vivere a Heisterbach gli era costato un viaggio di quasi due giorni, inerpicandosi su per colline e rocciosi sentieri : quanti mesi di cammino poteva distare Heidelberg? E Roma, allora, col Papa, i Cardinali e la gloria del passato? Grande è il mondo, si disse, enorme e pauroso. Vederlo tutto avrebbe potuto richiedere anni : migliaia di anni, più dei mille della scritta. Si, ma allora, neanche Dio ce l'avrebbe fatta a visitare tutto il mondo che pure aveva creato!
Sorrise soddisfatto fra sé, con una punta d'ironia per lo sciocco fratello che chissà quanti anni prima aveva dipinto la scritta sulla parete del refettorio. Questa era l'eccezione che lui, piccolo frate, aveva trovato all'affermazione che ogni giorno gli si sbatteva in faccia. Questo, il punto debole su cui la scritta incespicava e si rivelava fallace.
Forse per la soddisfazione profonda che l'aver trovato la falla logica che faceva crollare, e non solo vacillare l'affermazione della scritta, forse per la fresca aria mattutina che gli ridestava un cupo brontolio nello stomaco vuoto, avvertì un senso di vertigine, e si fermò per appoggiarsi al suo bastone da pellegrino.
L'aria vibrò intorno a lui come se una vampata di calore - talvolta accadeva, in campagna, che l'aria calda divenisse un velo tremulo e quasi palpabile - avesse per un attimo offuscato la visione degli alberi d'intorno. Battè più volte le ciglia, ed il tremolio si arrestò.
Ancora stordito, pensò che fosse il caso di muoversi e tornare al convento per mettere qualcosa nello stomaco. Improvvisamente, lo sguardo gli si posò sulla sua mano poggiata al bastone, ed un brivido lo colse: rugosa, scheletrica, incartapecorita, la sua mano appariva debole, incapace di reggere il nodoso bastone, come la mano di un vecchio.
Si guardò l'altra mano, e il mondo gli crollò addosso. Anch'essa era, come la prima, la mano di un vecchio decrepito, in condizioni peggiori delle mani del Priore del monastero di Bonn o dell'eremita che una volta era andato a visitare sul picco roccioso (Königswinter lo avrebbero chiamato in seguito, ma lui non lo sapeva) che dominava il Reno a poche miglia dal convento.
Attonito, si passò la mano sinistra, che tremante cercava di resistere allo sforzo di sollevarla, sul viso. Quel che sentì confermò l'atroce sospetto che lo aveva indotto a compiere quel gesto : la pelle era grinzosa, flaccida e sottile, ed il naso sporgeva adunco ed ossuto dalle profonde occhiaie che gli circondavano i bulbi sporgenti degli occhi.
Proseguì con la mano l'esplorazione del capo, e sotto il cappuccio del saio avvertì che la fluente massa di capelli, che fino ad un momento fa aveva con noia ricacciato indietro quando chinandosi gli si era riversata sul viso, era ora estremamente ridotta. Uno di essi gli rimase attaccato alla mano, e nello scrollarlo via si accorse con disgusto che era completamente bianco.
Passi per i capelli: anche suo zio era diventato completamente bianco nel giro di poche ore, una volta che era stato inseguito da un orso bruno nella foresta a sud ed era riuscito a stento ad arrampicarsi su un albero che l'animale aveva lungamente scosso dal basso, fino a stancarsi ed andarsene a stomaco vuoto. Ma la pelle, quale sortilegio poteva averla trasformata in tal modo in quei pochi minuti da che, per soffiarsi con le dita il naso, si era visto la mano e toccato il viso? Che stregoneria diabolica poteva aver trasformato gli occhi, l'ossatura del naso, e ridotto così consistentemente la massa dei suoi capelli?
Un sacerdote, un frate, e lui era entrambi, non può e non deve mai badare all'aspetto esteriore, e su questo il Superiore del convento, e più di lui il Priore del Monastero di Bonn, l'avevano affermato e ripetuto decine di volte. E lui, Rudolph, infatti, ligio ai princìpi dei due santi uomini non ci badava e non vi avrebbe mai dato alcuna importanza. Ma una tale trasformazione! Quella si che era qualcosa a cui far caso, semmai.
Si ravviò con la sinistra il saio, e sotto le dita sentì sdruciture, strappi e vasti tratti in cui la stoffa era divenuta sottile come un velo. Tanto sottile, che il solo movimento infertole dalla mano l'aveva smossa e lasciava ora passare leggeri spifferi di fredda aria autunnale.
Rabbrividì, e pensò che fosse più che mai necessario, se non urgente, tornare al convento per trovare panni più pesanti. Si avviò sul sentiero alle sue spalle, in direzione del convento, e si rese conto che non solo il suo passo era lento e traballante, ma che ogni movimento delle gambe si ripercuoteva dolorosamente su per la schiena mandandogli lancinanti ed improvvisi dardi di pena infuocata per tutto il corpo.
Ci vollero almeno tre ore, benchè fosse in discesa, per ripercorrere a ritroso il cammino che poche ore prima, quelle stessa mattina, aveva speditamente fatto fino alla cima della collina.
"Non sono solo i capelli o la pelle", pensava fra sé e sé, "è tutto il mio corpo che è diventato vecchio; i miei muscoli, le mie ossa dolgono perciò."
Quando infine, aggirato l'ultimo sperone roccioso, giunse in vista del convento, quel che vide furono pochi ruderi di pietra - quelli che oggi conosciamo come il Kloster Heysterbach - ai cui piedi, lungo il pendio della collina, si stendevano per oltre un miglio bellissime casette bianche, con giardini cintati in cui festosi cani dimenavano la coda e correvano allegramente.
Rumori mai uditi prima ne provenivano, musiche fragorose e certamente non sacre fuoriuscivano dalle finestre spalancate, ed uno strano oggetto rosso - grande quanto bastava a contenere almeno due buoi - era dinanzi ad una delle casette.
Una donna (od almeno le lunghe chiome bionde facevano pensare che lo fosse) finì di stendere i panni e si voltò nella sua direzione mentre, immobile, lui stava ancora chiedendosi con meraviglia cosa mai potesse essere successo della porcilaia, dello steccato di recinzione, e delle latrine in legno che solo poche ore prima erano proprio nel punto in cui ora la donna lo stava fissando.
Doveva essere rimasta colpita dalla sua vecchiaia e dal suo aspetto cadente, perché quasi subito, affrettandosi verso di lui, lo apostrofò in una lingua sconosciuta, di cui riuscì a comprendere solo "Vater" e "Komm". prendendolo per un gomito, quasi trascinandolo, ella lo sospinse verso la casa, e poi dentro una stanza luminosa con alcuni mobili di legno ed un'altro materiale liscio ed opaco, ed altri di puro scintillante argento.
Con aria indaffarata e preoccupata, gli avvicinò una coppa bianca con un liquido ambrato e caldo, dal sapore dolcissimo e delicato insieme, facendogli gesti d'invito a bere.
Ringraziò in latino, sperando che ella lo conoscesse, ma lei non gli rispose, od almeno non nella stessa lingua, salvo per l'ultima parola che suonò alle sue orecchie come un "Benedicite".
La benedisse, e la donna gli s'inginocchiò davanti ringraziandolo con un altro profluvio di parole che per lui erano senza alcun senso.
Poi, improvvisamente, la donna si rialzò e corse verso un oggetto nero posato su uno dei mobili, e cominciò a parlare in quella sua strana lingua. Comprese solo "alte" (vecchio), "Worte" (parola) e "komm" . Probabilmente, stava dicendo all'oggetto nero che lui , Rudolph, era vecchio, non diceva una parola della sua lingua, e che doveva andare lì da lei. Si alzò a fatica dalla seggiola, e si diresse verso la donna, ma lei rimise a posto l'oggetto nero e gli corse incontro per fermare i suoi passi incerti e riportarlo subito a sedere. Un nuovo profluvio di parole lo investì, ma nulla, questa volta, riuscì a penetrare la barriera del linguaggio. Intanto, Rudolph aveva avuto il tempo di osservarla.
Dinanzi agli occhi, retti da due astine di quel che sembrava oro, ella portava due oggetti tondi che sembravano di vetro trasparente. Le gambe, ben fatte, erano fasciate in stretti tubi di tessuto che le coprivano anche la parte bassa del corpo. Il deretano, sporgente, era inverecondamente posto in mostra e la sua curva era accentuata dall'aderenza dell'indumento. Nella parte superiore del corpo il torace era coperto da una maglia di lana (?) gialla che anziché occultarlo esaltava la curva del seno che sembrava voler esplodere.
L'abbigliamento, ed i modi franchi e diretti di lei gli facevano pensare che fosse una meretrice, una donna che - come dicevano i novizi - vendeva il suo corpo ed i suoi piaceri per uno o due pezzi d'argento. La sua voce, invece, ed il modo comunque rispettoso e sollecito con cui lo trattava, anche se lui non capiva nulla di quel che ella gli diceva, erano quelli di una donna di buoni costumi. Santa o puttana che fosse, egli non sentiva dentro di sé, o meglio sotto la sua tonaca, nessuna reazione quale quella che riteneva potesse associarsi al desiderio dei sensi suscitato da una creatura diabolica. Decise di rinviare il suo giudizio, e bevendo una seconda coppa del delizioso liquido caldo si guardò incontro.
Per la prima volta notò, nella stanza accanto a quella in cui si trovava, un mobile basso con una finestra sul lato anteriore nella quale si vedeva il viso di un bambino che parlava. Non riusciva a sentirne la voce, ma rimase colpito dal rapido movimento con cui il visetto infantile fu sostituito dalla testa e dalle spalle di un nano. Solo un nano avrebbe potuto stare così in basso da affacciarsi da quella finestra; ne aveva visto uno, una volta, che coi suoi compagni teatranti dava spettacolo sulla piazzetta del monastero di Bonn per le poche monetine che qualche donnetta ed il Priore del Monastero avevano offerto loro. Solo che questo era diverso : non aveva la faccia grinzosa e strana di quello, ed anzi sembrava in tutto e per tutto un uomo normale. Anche il nano scomparve dopo un po', e la finestra mostrava ora una piccola casa fatta a forma di cattedrale, con torri e croci.
Non ebbe il tempo di vedere oltre. Alla porta da cui era entrato, erano infatti giunti due uomini in abiti ancora più strani della donna. Uno, più magro ed alto, vestiva interamente di nero, con tubi alle gambe come la donna - ma solo un po' meno stretti - e con uno strano collarino bianco che gli serrava il collo. L'altro, basso ed apparentemente muscoloso, nascondeva in parte i tubi delle gambe con una specie di tonaca bianca che gli ricordava la cotta dei sacerdoti.
La donna li fece entrare, e da come parlava fitto con loro volgendosi verso di lui, e dal modo in cui i due lo guardavano di tanto in tanto, comprese che parlavano di lui.
L'uomo alto gli si avvicinò: i suoi capelli erano tagliati corti come quelli dei novizi, ma dall'età che dimostrava doveva aver raggiunto i trenta anni. I suoi modi erano calmi e la sua voce bassa e suadente. Questi provò a parlargli in diversi modi, tutti a lui sconosciuti, fino a che non gli rivolse poche parole in latino. Era un latino strano, pronunciato evidentemente da chi non lo aveva studiato bene, ma comunque era una lingua che gli era ben familiare.
Gli stava chiedendo il suo nome. Rispose, e vide un lampo di soddisfazione passare negli occhi dell'altro.
Da dove veniva? gli chiese quello, e lui rispose che veniva proprio da lì. La mattina era uscito per andare sulla collina ed i barbari Sassoni non avevano ancora distrutto il convento in cui la notte prima aveva dormito. Ma forse lui che faceva domande già lo sapeva…ma chi era, e dov'erano spariti i suoi fratelli ed il Superiore?
L'uomo lo guardò con aria strana, come avesse visto un fantasma. Stamattina? Dormito al convento con quel freddo e quella pioggia? Si sentiva bene? Si, rispose Rudolph: stanco, con le ossa rotte ed affamato, ma non ammalato.
L'uomo in nero si voltò a parlare con la donna e con l'uomo con la cotta bianca. Probabilmente traduceva le poche parole che si erano scambiate, perché vide che tutti e tre si voltavano continuamente verso di lui.
Poi l'uomo in nero tornò presso di lui, “Pater” gli disse, “sono anch’io un sacerdote, e sia io che padre Werner siamo tuoi confratelli nella fede. Puoi fidarti di noi e narrarci tutto”.
Non c'era nessun mistero, e Rudolph raccontò l’accaduto. Era ben poco, e lo si capiva dallo sguardo del sacerdote. Poi questo gli chiese se sapesse in quale anno di grazia Domini, ed in quale giorno di quale mese, egli fosse uscito dal convento quella mattina. Rispose che lo sapeva benissimo: era il lunedì successivo alla Quarta Domenica d'Avvento dell'anno di Grazia 995 dopo la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo, "laudetur semper" concluse.
"Semper laudetur" gli fece eco l'altro, e restò muto, con gli occhi bassi per qualche minuto. Poi si scosse, lo guardò con occhi lucidi di lagrime, e lo abbracciò stretto sussurrandogli all'orecchio : "Pater, oggi è mercoledì della Quarta Settimana d'Avvento, ma siamo nell'anno di Gratia Domini Millenovecentonovantacinque."
Rudolph, folgorato, restò immobile, pensando e ripensando : mille anni! Mille anni erano trascorsi da quella mattina, e non era ancor sera! Mille anni come diceva la scritta dell'ignoto frate pittore!. Mille anni dalla sua bestemmia di quel mattino!
E cominciò a piangere. Piangeva ancora quando il Priore di Bonn andò la sera stessa a visitarlo nell'infermeria del Monastero. Pianse per giorni, per settimane. Il suo cuore cedette la sera della Vigilia di Natale, quando tutti, nel Monastero, celebravano la Gloria del Dio che si fece Uomo per dare la Vita e conoscere la Morte. E seppe allora, il giovane Rudolph, cos'è l'Eternità senza tempo.
Le rovine del Kloster Heisterbach si trovano ancora su quella collina alle spalle di Königswinter, a pochi chilometri da Colonia e dall'altra parte del grande fiume rispetto a Bonn. La scritta sulla parete del refettorio è scomparsa con il refettorio ed il resto del convento, ma la leggenda vive ancora.

domenica 25 maggio 2008

Storie fantastiche: John Titor


Alcuni di voi avranno certamente vista la trasmissione RAI "Voyager" nella quale si è parlato di John Titor, il viaggiatore del tempo.
La vicenda inizia il 2 novembre del 2000 quando nel Forum communities.anomalies.net comparve un tizio che dichiarava di provenire dal 2036.
Parlando di se affermava di chiamarsi John Titor, di essere nato nel 1998 a Tampa, in Florida, e di essere un ufficiale di un esercito del futuro. Nei suoi post raccontava di una guerra civile che sarebbe scoppiata in America alla fine del 2004 e di una guerra termonucleare che sarebbe avvenuta, o che avverrà, nel 2015 e che comporterà miliardi di morti.
Il 24 marzo del 2001 scriveva il suo ultimo post perché sarebbe ritornato alla sua epoca. Avrebbe infatti completata la sua missione che consisteva nel recupero di un pc IBM 5100 del 1975 dotato di alcune singolari e non più ripetute caratteristiche segrete tra le quali quella di tradurre tra loro i linguaggi UNIX, APL e BASIC.
I suoi post erano corredati di fotografie varie della "macchina temporale" e di alcuni schemi tecnici. Come spesso accade in America (e non solo) , i suoi interventi hanno presto creato due gruppi, "i sostenitori" e "gli scettici" fra tutti coloro che si sono imbattuti nei suoi scritti.
Attualmente in America vi è addirittura la Fondazione John Titor che cura libri e pubblicazioni sul personaggio e che è presieduta da un avvocato. La troupe RAI ha effettuato un'accurata ricerca in loco e non ha, ovviamente, trovata alcuna traccia di questo personaggio, della sua famiglia e della sua nascita. L'ipotesi più probabile è che il fantomatico John Titor sia, in realtà, un misterioso fratello dell'avvocato, persona esperta in elettronica ed informatica.
Chi volesse ulteriormente approfondire la conoscenza di questo originale personaggio potrà trovare su Youtube le rimanenti 3 parti di Voyager dedicate a John Titor (vedi la clip nella colonna), e su Internet numerosi resoconti corredati da fotografie.

P.s. Voglio chiarire che, per certe cose, sono ancora più scettico di Piero Angela e del Cicap. Secondo me le cose sono andate così: C'è un tizio che è un esperto di informatica e di elettronica, appassionato di fantascienza. Decide di fingersi, in un Forum, un viaggiatore del tempo. Continua per diversi mesi suscitando un grande interesse con teorie, foto e diagrammi tecnici. Quando decide di chiudere il gioco e di fingere di tornare al futuro si mette d'accordo con quel volpone del fratello, che è avvocato, e crea la fondazione John Titor con la quale può mantenere vivo l'interesse e fare soldi pubblicando libri e opuscoli su quanto detto nel Forum. Che sia una bufala è più che ovvio: qualcuno ha forse saputo di una guerra civile avvenuta negli USA nel 2004?