venerdì 4 maggio 2007

Problemi, problemi, problemi.




Beh amici cari, che vi posso dire; per i noti problemi sulla proprietà delle "opere d'ingegno" mi sono trasferito qui. Alla mia veneranda età non mi è stato facilissimo capire come funziona questo "coso", ma più o meno ci sono riuscito e tutto sommato trovo maggiori possibilità di quelle che avevo su Tiscali.
Naturalmente quello che mi manca di più sono i miei amici, ma questo è un problema superabile. Alcuni mi hanno già raggiunto e gli altri andrò io a trovarli.
Purtroppo nei prossimi giorni sarò abbastanza incasinato: è l'ora della denunzia dei redditi (che faccio sempre da solo) che quest'anno è più complessa di quelli precedenti. Poi c'è anche il problema ICI che la mia brava sindachessa (la possino 'mmazzà) ha ulteriormente aumentato ed inoltre mi ha aumentato del 27% il valore catastale della casa, motivo per cui dovrò rifare tutti i miei calcoli.
Poi ho in programma (ma non ne sono ancora sicuro) di fare un viaggetto un po' lungo fino a Reggio Calabria (vedi il post qui sotto) per rivedere alcuni miei vecchi amici ed ex compagni di Liceo con i quali ho mantenuto sporadici contatti telefonici.
Questa cosa mi attira e mi spaventa nello stesso tempo: io li ricordo giovani e belli e necessariamente questo ricordo sarà (vicendevolmente) distrutto dalla realtà. Anche la mia ragazza dei verdi anni avrebbe piacere di rivedermi (povera lei, che delusione avrà!), comunque la cosa mi intriga e mi preoccupa nello stesso tempo. Come direbbe il buon vecchio Amleto "to go or not to go, that is the question"!
Bah. Vedremo. Un abbraccio e cari saluti a tutti.

mercoledì 2 maggio 2007

Articolo tratto da Wikipedia

In ottica la Fata Morgana, o Fatamorgana, è un tipo di miraggio in cui l'immagine apparente muta velocemente forma; viene così chiamato per la caratteristica di riprodurre il soggetto a una elevazione dal suolo, proprio come le apparizioni dell'omonimo personaggio della mitologia celtica.
In Italia, questo raro fenomeno si manifesta nelle calde giornate estive a Reggio Calabria, chiamata infatti per tradizione "Città della Fata Morgana".
Si tratta di un effetto dovuto alla particolare distribuzione dell'indice di rifrazione della luce del sole in diversi strati d'aria e quindi per certi versi analogo al miraggio. La differenza consiste nel fatto che fino ad una certa altezza l'indice di rifrazione assume un valore crescente con essa per poi tornare a diminuire, per questo a differenza del miraggio le immagini sono molto mutevoli e deformate, difficilmente riconoscibili.

Ritorno alla fata Morgana


Il ritorno

Maestosa la nave terrestre
che solca
binari di luce,
cavalca ruggendo lo spazio.
Ritorno a un passato
lontano,
un luogo incantato,
ove un tempo
la mia giovinezza.
sognava

ancor più veloce
il pensiero
raggiunge la meta
e sussurra:
è saggio tornare ?
È saggio annullar la memoria
di volti gioiosi
e ridenti
di amici
e fanciulle?

Sai bene che tutto è cambiato.
Capelli imbiancati
Il fiume del tempo è passato.
Son volti rugosi
e cadenti.
La nebbia ha disperso il ricordo
di molti, che eppure
tu hai amato.
E’ un vago sogno lontano.
invano tu stendi
la mano
cercando un presente
passato.

Perchè "Poesia"?

Talvolta, quando ho poco o nulla da fare, guardo “La corrida” in televisione. Tra un susseguirsi di cantanti stonati e di fantasisti da strapazzo, compare di tanto in tanto un sedicente poeta.
Quasi sempre la sua esibizione è seguita da un coro assordante di fischi e di risate. Spesso ampiamente meritate sia per la pochezza dei cosiddetti “versi” sia per l’incapacità assoluta di saperli recitare. Talvolta, molto raramente, capita pure qualcosa di buono, ma anche quello viene sonoramente fischiato. E allora? Dobbiamo ritenere che alla gente comune non piaccia comunque la poesia, e perché?
E’ vero che il poeta, quasi sempre, non ricava nulla o ben poco dai suoi libri, e vive una vita grama e stenta, e anche qui, perché? Perché non vende?Credo che, alla base, vi sia, per questo genere, un pessimo insegnamento ricevuto dalla scuola: una volta (oggi non si fa neppure questo) vi era l’obbligo faticoso di imparare a memoria alcune tra le più belle e note liriche, ma, a parte il prezioso arricchimento che quei versi danno a chi ancora se li ricorda, anche allora non si faceva spesso comprendere ai ragazzi il significato profondo di quei versi, la loro spiritualità, la musicalità, l’esplosione di sentimenti universali che il poeta esprimeva.
Una poesia va letta con gli occhi, con il cuore e con l’anima. E se è recitata, una poesia va recitata da chi sa veramente recitare. Io, che probabilmente per le carenze cui accennavo prima, non ho mai amato particolarmente Dante, sono rimasto incantato, come migliaia di italiani, a sentirlo declamato recitato e spiegato da Benigni.
Sembra incredibile, ma un comico, sia pur colto e intelligente, ha saputo fare, con enorme e malcelata sensibilità, supportata dalla sua ineguagliabile mimica, quello che centinaia di insegnanti imbottiti di lauree non sapevano e non sanno fare: interessare, avvincere, stupire, stimolare la fantasia e fare palpitare i cuori e l’anima anche delle persone più modeste. Cosa che neanche il grande Vittorio Gassman seppe fare leggendo Dante: c’era la cultura, c’era l’ottima recitazione, ma non c’era forse la passione, non c’era l’anima nella sua recitazione probabilmente troppo intellettuale, e la gente lo percepiva.
Ma che cos’è la poesia? Secondo l’estetica crociana è intuizione lirica, espressione del bello artistico. Mi sembra un concetto condivisibile ma riduttivo. Per me la poesia è emozione, musica dell’anima, sofferenza, amore.Credo che milioni di giovani, durante la loro adolescenza, abbiano scritto delle poesie, anche una sola. E chissà, nascoste in mezzo a tonnellate di materiale di scarto, quante perle vere, quante fulgide gemme siano andate perse per sempre.
Oggi abbiamo qualcosa di diverso: non occorre più un arcigno editore per farsi conoscere. Internet pullula di centinaia, forse migliaia di siti dedicati alla poesia il che dimostra che la poesia è sempre vivissima nel cuore dell’uomo.
Certo, non è facile separare il grano dalla pula (e di pula ce n’è tanta, oh quanta), ma c’è anche chi questo lavoro lo fa con passione ed amore.Dicevo, giorni fa, ad un giovanissimo e dotato poeta che ha intrapreso la carriera del giornalismo – non trascurare e non abbandonare mai la tua vena poetica. Non lasciarla inaridire. Un uomo senza poesia è un uomo dimezzato; ed anche un bravo giornalista non sarà mai veramente grande se non saprà scrivere i suoi articoli oltre che con la penna anche con il cuore.

Un piccolo amore (fine di un idillio estivo)


Sera d'estate
scintillante e triste.
Un sorriso,
una lacrima
un addio.

Le parole non dette


Hanno
le parole non dette
un suono?
Sospiri della mente.
Sussurri
lievi...
Fantasmi sfumati
di nebbia.
Amori perduti.
Rimorsi di algido ghiaccio.
Eventi diversi,
vite lacerate
da parole non dette.


dedicata ai miei genitori
ritratti nel giorno del loro matrimonio

Ad un bimbo suicida

Dalle lontane terre
dove brucia l’arsura
Eri venuto
o dolce bimbo
dalla pelle scura,
e di te si arricchiva
il nostro mondo.
Stanco di guerre
Con il tuo amore
per la conoscenza
Con la tua mente
acuta come un falco
Ci aprivi il cuore,
e lenivi il dolore
della nostra insipiènza
La tua sapienza
volava troppo alta
per i piccoli gnomi
a te d’ intorno,
E un triste giorno
stanco d’esser deriso
abbandonasti
la forza delle ali,
e il tuo sorriso
E come goccia
trasportata dal vento
In terra giaci
Solitario e muto
Senza più un lamento.
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Nota: E' un tristissimo fatto di cronaca. Un ragazzino extracomunitario studiava in una scuola italiana con grande profitto e con grande intelligenza. La sua superiorità scolastica ed i suoi modi garbati e gentili hanno suscitato l'invidia e l'ira dei suoi compagni. Questi lo hanno a lungo tormentato disprezzato ed umiliato, chiamandolo anche "finocchio", fino a creare nel suo animo sensibile una grande disperazione, ed una malinconia tale da indurlo a suicidarsi.

L'ottavo bombardamento



Aaauuuuuuuu Aaauuuuuuuu“
Svegliati bimbo mio, presto. Vestiti” – la mamma mi trascinava a forza fuori dal letto e, frettolosamente mi faceva indossare i vestiti.
Mio padre, nella notte, era arrivato di corsa dal distretto militare e, ancora ansimando, aiutava mia madre ad indossare la sua vecchia e malconcia pelliccetta per difendersi dal gelo invernale esterno.
Poi, via, di corsa, per le strade buie oltre il convento dei cappuccini mentre le sciabolate di luce dei fari antiaerei illuminavano le nuvole.
“dove andiamo? Dove…” “di là, di là, tesoro” bisbigliava mio padre a mia madre “ di là c’è il rifugio Raggio di Sole che hanno approntato sotto le antiche mura
”Aaauuuuuuuu Aaauuuuuuuu
L’ululato delle sirene d’allarme aveva qualcosa di lugubre e sinistro, ma io, poco più di sei anni e ancora assonnato, con il naso e le mani che mi si gelavano per il freddo, quasi non lo sentivo.Arrivammo al rifugio. Ricordo una caverna profonda e scura, satura di strani fetori: terra, muffa, umidità e quell’odore acre, pungente e acido che emanava dalle centinaia di persone già ammassate là dentro, stretti nei loro panni, addossati l’uno sull’altro e con il bianco degli occhi, spalancati per la paura, che riluceva nel buio.
Aaauuuuuuuu Aaauuuuuuuu
Mia madre si agitava irrequieta. Sempre più ansiosa, sempre più spaventata.
“ No.No. Non voglio restare qui. Non voglio, non mi sento sicura, mi sento soffocare…” “Ma dove vuoi andare? Non ci sono altri posti nelle vicinanze, e poi gli aerei stanno arrivando... “ mormorava papà cercando di calmarla.
Non ci fu nulla da fare. Quando mia madre si metteva in testa qualcosa non cambiava idea. Uscimmo dal rifugio. Cominciammo a correre verso gli alberi e la campagna.
Aaauuuuuuuu Aaauuuuuuuu
Poi le sirene tacquero.
Si principiò a sentire il rombo lontano di decine di bombardieri in volo e il rattattà sordo della contraerea mentre in cielo cominciavano a sbocciare centinaia di abbaglianti fuochi luminosi. Io guardavo, incosciente e affascinato, quello straordinario spettacolo, mentre i razzi illuminanti lanciati dagli aerei scendevano pigramente appesi ai loro paracadute.
Pochi secondi dopo giunse una specie di sibilo rombante, simile, nel mio ricordo, al rumore di un treno lanciato ad alta velocità.
Ci gettammo a terra, tra gli sterpi e le erbe bagnate dalla brina. Non so come, mia madre riuscì a togliersi la pelliccetta e mi coprì con quella.
Poi giunse un fragore immenso e ripetuto, ed il suolo sussultò sotto di noi. Una pioggia di rami spezzati, di sassi, di terra, ci inondò. E poi ancora, altri rombi, altri scoppi.
Il tempo si era congelato in un immenso, solo, interminabile attimo dilatato dalla paura. Quindi, ancora il ronzio dei motori dei bombardieri, ma sempre più lontani.
Ci scrollammo il terriccio di dòsso e ci rialzammo guardandoci l’un l’altro, increduli.
Eravamo vivi, e i nostri volti, e la notte intorno a noi erano illuminati non più dai razzi, ma dagli incendi che si levavano dalle case in fiamme della periferia di Padova.
Aaauuuuuuuu Aaauuuuuuuu
Le sirene suonavano ora il cessato allarme. Tornammo faticosamente a casa, tra macerie, incendi e lontane grida.
Il giorno seguente apprendemmo che due grappoli di otto bombe erano cadute ai due ingressi del rifugio Raggio di Sole e parecchie decine di persone erano morte colpite dalle schegge o schiacciate dallo spostamento d’aria.La premonizione di mia madre ci aveva salvati.

Fabula antiqua


Ondeggia il tessuto leggero
Della tua gonna,
Ed accarezza i fianchi sinuosi
E le gambe snelle.
Il vento bacia scherzosoI tuoi capelli
E li scompiglia,
Simili ad una nuvola
Di rondini
Persa nei cieli primaverili.
E gli occhi…
Oh i tuoi dolci occhi,
Bellissimi specchi di peltro brunito
Illuminati
Da spruzzi dorati di sole.
Profondi e misteriosi
Come il tenero velluto
Dello sguardo
Di una languida cerbiatta.
Colmi di un immenso
Amore, incompreso e nascosto,
Che pur, talvolta, sfugge
Dalla sua prigione
Con abbaglianti lampi di luce.

martedì 1 maggio 2007

Senilità


Notte insonne.
Soffia il vento della memoria
S’attenua,
Sbanda,
Riprende.
Schegge impazzite
Cellule bruciate
Scomparse
Per sempre.
Nomi, cancellati
Fatti, soppressi
Volti, dimenticati
Vaghi ricordi vicini
Dolci ricordi lontani
Solo tu
Sempre presente
Amore mio
Solo tu
Per sempre con me

Ricordo del mio primo amore


Nel 1946 la guerra era finita da poco e noi tutti, dopo gli anni di sfollamento in un piccolo paesino dei colli Euganei: Galzignano, eravamo rientrati a Padova. Avevo 11 anni e, dopo tre anni di interruzione avevo finalmente ripreso le scuole elementari.Eravamo tornati nella nostra abitazione in via Borromeo. Nello stesso palazzo abitava il farmacista dr. D. con la moglie, una donna bellissima molto fine ed elegante, e con la figlia, una deliziosa bambina dai capelli bruni di cui mi innamorai follemente. La fanciulla, che si chiamava Maria Edoarda, aveva forse un anno meno di me. Molto curata, indossava spesso una mantellina bianca con il cappuccio, e frequentava la mia stessa scuola elementare: la scuola Reggia Carraresso.Io, me ne resi conto anni dopo, ero l’immagine stessa della povertà e della trascuratezza. Indossavo abiti sdruciti, sporchi e malconci che erano stati ricavati da vecchi abiti di papà voltati e rivoltati. Ai piedi avevo uno strettissimo paio di scarpe nere, a punta, che avevamo trovato in uno dei pacchi U.N.R.A. e cioè in quei generi di soccorso che ci inviavano gli americani. Quelle scarpe erano così strette che mi deformarono le dita dei piedi riducendole a cubetti, e ci vollero anni ed anni perché potessero riprendere un aspetto normale. Ricordo bene, tra l’altro, che per lisciare i miei capelli ribelli mamma usava il sapone da bucato e che i miei calzini, bucati e rattoppati, restavano ai miei piedi per mesi. In conclusione, ero tremendamente sporco e puzzavo come una capra. Ricordo ancora la vergogna che provai quando il maestro Chino mi fece notare che, oltre ad avere le unghie listate a lutto, avevo la radice delle dita nere di sporcizia.Insomma non avevo un bell’aspetto e, tuttavia, non me ne rendevo pienamente conto.Maria Edoarda era per me una visione meravigliosa. Ogni qual volta la incontravo il cuore mi balzava nel petto fino a farmi sentir male e la guardavo da lontano senza avere mai il coraggio di avvicinarla e tanto meno di rivolgerle la parola. Benchè pigro, come sono sempre stato, l'amore mi dava la forza di alzarmi prestissimo la mattina e di appostarmi per le scale, in attesa che lei uscisse per andare a scuola, e poi, senza farmi notare, la seguivo a distanza.Nel tentativo di farmi accettare sotto l’aspetto di un eroe salvatore, mi accordai con un ragazzetto mio amico affinché la importunasse durante il cammino per darmi l’occasione di intervenire in suo soccorso. E così avvenne. Il mio intervento in sua difesa fu però così impetuoso e le botte che fingevo di dare al mio complice erano così apparentemente veritiere che il risultato fu negativo. Maria Edoarda mi guardò severamente e disse: “come sei cattivo”.Ovviamente questo episodio, unitamente alla mia spaventosa timidezza, mi impedì di cercare ulteriori contatti. Continuai comunque ad adorarla ed a seguirla da lontano anche quando terminarono le elementari ed iniziarono le scuole medie.Poi, credo verso la fine del 1950, papà fu trasferito a Reggio Calabria. Per me fu un distacco tremendo dalla mia città, dalla mia lingua, dai miei amici e dal mio amore. Piansi per anni la perdita di Maria Edoarda. Ricordo che, in un libro giallo, trovai una canzone e quei versi mi sembrarono talmente aderenti al mio stato d’animo che mi rimasero perennemente impressi:
Bella, t’ho tanto amato
Che senza te più vivere non so
Bella ho sempre sperato
Ed ora sento che mai non ti avrò
Devo partire, devo andar lontano
E non ritornerò.
Ma ci vedremo ancora
Nella terra del sogno
Finché una nuova aurora
Per sempre ci unirà.
Laggiù lontan lontano
Nella terra del sogno
Tenendoci per mano
Nella terra del sogno.
Non ho mai dimenticato Maria Edoarda e non ho mai più provato nella mia lunga vita le fresche emozioni di allora. Nei giorni scorsi, forse influenzato da certe trasmissioni televisive, ho cercato di rintracciarla telefonicamente. Ero curioso di sapere se avesse mai notato o se si ricordasse, anche vagamente, di quel ragazzetto malconcio che abitava nel suo palazzo, e se si fosse mai resa conto di quanto fosse stato innamorato di lei. Ho rintracciato una sua parente che si ricordava ancora di me e della nostra famiglia e che, con molta dolcezza, mi ha informato che tre anni addietro Maria Edoarda è deceduta in pochi mesi per un tumore al cervello.Perché questo racconto? Un poco perché sono fatti intimi e personali che sono rimasti chiusi nel mio cuore e nella mente per oltre sessant’anni e che ora ritengo giusto salvare affidandone la memoria a questo scritto; e poi perché vorrei che tutti fossero consapevoli della necessità di non rimandare mai ad altra stagione le cose che vorremmo fare. Infatti, nel momento in cui vorremmo fare o dire certe cose, magari solo le parole - ti amo - i destinatari potrebbero non esserci più.Diceva, con molta saggezza Papa Giovanni: “tornando a casa, ‘stasera, fate una carezza ai vostri bambini…”.‘Stasera. Cioè: subito. Una carezza non data oggi potrebbe non trovare più il destinatario domani. E così una frase affettuosa, una parola di scusa, un’apertura di cuore…Può darsi che siano i pensieri malinconici della senilità… ma forse, forse, meritano un attimo di riflessione.Con il passare del tempo ci rendiamo conto di non essere più immortali, come inconsciamente credevamo nei nostri anni verdi. Il nostro mondo cambia, i sentimenti mutano e le persone scompaiono.

Zari


Si chiamava Zarì. I suoi occhi castani, dolci e intelligenti, dai riflessi dorati, mi guardavano sempre con adorazione. Era il mio compagno di giochi, il mio amico più caro, la mia vittima. Sopportava con rassegnata pazienza tutte le mie angherie.Correvo con lui. Ci rotolavamo insieme per terra. Lottavamo. Gli salivo sulle spalle e lo cavalcavo. Gli infilavo in gola il mio piccolo pugno di bambino di due anni. Quando proprio non ce la faceva più, mi guardava negli occhi, arretrava di un passo e faceva un secco: “Buh”. Il suo aspetto si faceva maestoso e corrucciato, l’atteggiamento minaccioso e quasi aggressivo; ma il lungo fiocco della coda, scodinzolante, tradiva la sua finzione ed il suo affettuoso divertimento: Era sempre lui, il mio amico, il mio guardiano devoto, il mio cane.Dalla finestra della camera da letto, che raggiungevo salendo su di una sedia, si scorgeva un ampio spiazzo antistante una scuola elementare. Bambini in divisa, poco più grandi di me, marciavano, cantavano, giocavano, sotto gli occhi vigili delle maestre. Li guardavo incantato. Mi affascinava la loro cintura bianca con una grande “M” al posto della fibbia, il moschetto di legno che brandivano come tanti soldatini, il tricolore, con al centro lo stemma sabaudo, che sventolava in cima ad un pennone.Zarì appoggiava le lunghe zampe sul davanzale e guardava a sua volta, girando di tanto in tanto il capo verso di me scrutandomi interrogativamente con i suoi grandi occhi umidi e teneri. Poi si ritraeva, afferrava con i denti i miei vestiti e mi costringeva a scendere dalla sedia. Abbaiando e scodinzolando m’invitava al gioco, a correre, a lottare. E l’appartamento di quel gran caseggiato di Roma, in via Satrico diventava il nostro campo di gioco, la nostra foresta ricca di nascondigli, di cunicoli, di caverne misteriose e oscure che si addentravano sotto il letto di mamma e che trovavano uno sbocco tra due colonne nere: gli stivali di papà. Poi un giorno, un brutto terribile giorno, Zarì cominciò a cambiare: guaiva, ringhiava sommessamente e camminava strisciando il ventre per terra . Quando mi avvicinavo a lui, fuggiva e andava a nascondersi sotto i mobili negli angoli più remoti .Dopo pochi giorni la situazione peggiorò. Non mangiava più, un filo di bava gli colava dalla bocca e se mio padre gli si avvicinava ringhiava furiosamente mostrando le zanne. Con me no. Non ringhiava, ma mugolava e fuggiva disperato. Con gli ultimi barlumi di lucidità del suo povero cervello devastato cercava di non farmi del male e fuggiva via evitando di mordermi.Poi, tornando a casa, non trovai più Zarì. Lo cercai, disperato, per giorni e giorni. Mio padre e mia madre fingevano di non saper nulla e solo molti anni dopo compresi che il mio amico si era ammalato di encefalite, la cosiddetta rabbia, e che era stato abbattuto dal veterinario.Sono passati settant’anni e da allora molti altri cani si sono succeduti nella mia vita, ma il ricordo di Zarì e del suo affetto resta malinconico e indelebile nella mia memoria.

Quando un randagio mi salvò la vita...



Credo fosse il mese di agosto del 1940, o forse del '41. Ancora una volta mamma ed io eravamo andati in villeggiatura da soli. Forse, o forse no, era il piccolo borgo ove eravamo già andati altre volte: S.Stefano di Cadore. Sicuramente era un paese di montagna. Papà, come spesso avveniva, era rimasto a Padova per lavoro e probabilmente anche per limitare le spese.Amante dei cani, fin dalla nascita, avevo subito fatto amicizia con un randagio rossiccio che avevo chiamato Raci, nome preso da un cartello stradale, e che, me ne resi conto anni dopo, significava Regio Automobil Club Italiano.Come di consueto, avevamo affittato una stanza nella casa di un paesano e la nostra principale attività era andare in giro per il paese, fermarci in qualche piccolo bar per prendere qualche bibita o fare lunghe passeggiate lungo i sentieri che si inerpicavano tra prati e boschi.Una mattina, durante una di queste escursioni, ci imbattemmo in un branco di bovini che pascolavano in un prato. Mamma aveva una paura quasi patologica nei confronti di questi animali e non appena li vide si fermò di colpo.Stranamente quelle stupide bestie sembrava riuscissero a percepire quel timore, e alcune di loro si avviarono a corna basse, apparentemente minacciose, verso di noi."scappiamo, scappiamo" strillò mamma e tirandomi per mano ripercorremmo di corsa il tratturo che portava al paese.Qualche giorno dopo stavo giocando, da solo, nella strada completamente deserta prospiciente la nostra abitazione quando all'improvviso un'intera mandria bovina scese lungo la via. Terrorizzato mi addossai con le spalle contro un muro di cinta mentre decine di enormi bestie mi sfilavano davanti. Improvvisamente una di queste, una vacca o probabilmente un bue, si fermò e a corna basse venne verso di me.Mamma, che in quel momento si era affacciata alla finestra dall'altra parte della strada, vide la scena e lanciò un grido che fece arrestare per un attimo il mostro che subito dopo, incurante delle reiterate urla di mia madre, riprese la sua avanzata con l'evidente intento di incornarmi. Ma ecco che in cima alla strada comparve una nuvoletta di polvere. Era Raci che correva ventre a terra verso di me. In pochi secondi il cane si frappose, ringhiando selvaggiamente e con il pelo irto, tra me ed il bue che dopo qualche perplessità abbassò nuovamente le corna. A quel punto Raci smise di ringhiare e passò all'attacco alzandosi sulle zampe posteriori e balzando contro il muso dell'avversario azzannandolo e mettendolo in fuga.Caddi a sedere per terra mentre Raci, festoso e scodinzolante mi leccava la faccia. Subito dopo ero tra le braccia di mia madre.

La cerbiatta nera


Non ti pensavo, non ti cercavo, non ti volevo.
Uno spettro ghignante mordeva la mia anima
E la squarciava in brandelli sanguinanti
Con i suoi feroci denti affilati

Non ti pensavo, non ti cercavo, non ti volevo.
E tu mi incontravi, tu mi cercavi, tu mi consolavi
Ed asciugavi le lacrime di un antico cuore straziato.

Poi, in un sacro sito, uno strano profumo
Comparve, improvviso, misterioso, suadente.
Non cercato, non voluto, non creduto.

Ed io ti pensavo e tu mi incontravi
Ed io ti cercavo, e tu mi cercavi
Ed io ti sognavo e tu… e tu… ?

Ondeggiava il tessuto leggero…
E lo spettro famelico si ritirò silenzioso nell’ombra
Leccando avidamente il sangue dai suoi feroci denti affilati
Mentre una languida cerbiatta dai grandi occhi dorati
Sembrava illuminare il mondo di purissima luce.

Ed io ti pensavo e tu mi incontravi
Ed io ti cercavo, e tu mi cercavi
Ed io ti sognavo e tu… e tu… ?

Poi vennero i giorni del lupo e della faina
E gli occhi dorati, gli specchi di peltro brunito
Si nascosero dietro un velo opaco.
E la pianura verde si ricoprì di neve

E la cerbiatta bianca mostrò il suo cuore nero
Ondeggiava il tessuto leggero…
E il manto d’amore si rivelò un sudario.

Ed io ti pensavo e tu mi rinnegavi
Ed io ti cercavo e tu mi fuggivi
E mentre il sogno bambino piangeva … tu ridevi

E lo spettro famelico risorse trionfante dall’ombra
Cercando le ultime gocce di sangue
Di un anima devastata e morente che il tempo
Cerca pietosamente di pietrificare.

Un cuore bambino

Le mie illusioni,
deluse dalla sorte,
avvelenate dal grigiore tetro
di una palude venefica e melmosa
che un tempo,
nelle nebbie
della sognante trepida giovinezza,
sembrava un dolce tenero lago.
E tu amor mio,
che sorridi alla vita,
potrai forse mai perdonare e
comprendere
un cuore bambino.
Uno stupido cuore bambino
che, ignaro d’esser morente,
credeva che le spine
fossero rose,
che i baci fossero miracoli,
che il ghiaccio
potesse esser fuoco,
e che un dio ghignante
e malvagio
fosse un dio di speranza
e d’amore.

Vorrei...

Vorrei gustare ancora
il morbido sapore
delle labbra di donna
Vorrei correre ancora
sulla soffice rena del mare
Vorrei volare in alto
sopra gli immensi
spazi azzurri
Vorrei vedere ancora
un volto di fanciulla
che sorride solo per me
Vorrei sentire ancora
il tepore delle tue gambe
avvinghiate alle mie
Vorrei dimenticare
il dolore passato e ricordare
un ignoto futuro
Vorrei forse vorrei…
avere ancora un futuro

Angelo mio

Dolce angelo
dagli occhi di giada.
Fosti, forse, presente
solo nei sogni
di Raffaello o del Perugino.
Ora presente
solo ne' sogni miei.
Eppure un tempo
(dolce remoto tempo)
fosti tra le mie braccia.
Accarezzavo la seta
della tua pelle
Godevo il sapore
delle tue labbra
annegando nell’amore
tumultuoso e vibrante
con cui mi avvolgevi.
Con quell’amore
mi proteggevi dal mondo.
Mi davi vita.
Molti anni son trascorsi…
Lunghi angosciosi anni
di solitudine.
E i brevi giorni
In cui sei stata mia
restano il dono prezioso
che conserva il mio cuore
per sempre.

lunedì 30 aprile 2007

Un sogno perduto (racconto)


Era un immenso amore, ma grande, grande, grande. Lei era una donna eccezionale: bellissima, sensuale e squisitamente femmina fino alla punta dei capelli.
Non è del tutto vero che dietro un grand’uomo ci sia una grande donna, è vero invece che c’è sempre una grande donna che a volte, ma non sempre, riesce a rendere grande l’uomo e che comunque riesce spesso a migliorarlo.
Lei aveva meno di trent’anni. Lui, di dodici anni più vecchio, era un ometto qualsiasi, ma lei, per qualche strana alchimia della natura, si innamorò di lui e lo rese veramente uomo. Lei lo amava di un amore incredibile, oltre ogni dimensione. Lui cercava di starle alla pari ma per quanto facesse, per quanto impegnasse tutto sé stesso non riuscì mai ad eguagliare l’amore di lei.
Lei sembrava eterna ed immutabile. Gli anni passavano e diventava sempre più bella. A cinquant’anni ne dimostrava meno di trenta.
Dolce e gentile amava la vita e la gente. Aiutava i poveri, assisteva una vecchia cieca e tanti altri, era sempre disponibile a fare del bene. Religiosissima riusciva a non essere bigotta. Se qualche malevolo le diceva che il suo carattere appassionato la portava al peccato lei rideva, e scrollando la bella testa affermava: Gesù ha detto: “amami come sei”.
Molti uomini la insidiavano, molte donne la invidiavano, la odiavano, l’insultavano e la facevano soffrire ma lei non perdeva mai il suo coraggio e la sua dolcezza.
Poi, un triste giorno, il subdolo nemico oscuro che ha sconfitto l’indomabile Oriana Fallaci la colpì. Ricoverata in ospedale fu sottoposta a quell’orribile devastante intervento che priva una donna della capacità di generare. Lui le fu sempre vicino, coccolandola, confortandola, imboccandola quando non aveva più la forza di mangiare da sola. Poi un lungo periodo di chemioterapia la privò dei capelli e delle forze residue.
Eppure, eppure, la sua bellezza divenne spendente. L’ovale perfetto del viso, la pelle liscia e trasparente come quella di un bimbo la resero eterea e stupenda mentre il loro amore diventava, se possibile, ancora più saldo e sfolgorante.
Con enorme fatica riprese lentamente a camminare, i capelli ricrebbero. Sei anni dopo era ritornata la splendida donna di sempre. I continui controlli medici avevano convinto tutti della sua guarigione. Lei ed il suo amore fecero un viaggio: il lago di Garda, Venezia, Firenze, lo Specchio di Diana.
Poi lei si indebolì, cominciò a camminare ed a respirare a fatica. Nuovamente ricoverata in ospedale fu sottoposta a ripetute toracentesi per toglierle il liquido che si era formato nella pleura. E lei, che temeva perfino una semplice iniezione, si sottoponeva a quella tortura mentre lui la teneva stretta tra le braccia, strizzando gli occhi per non inondarla di lacrime e non spaventarla: il subdolo demone era purtroppo tornato
Pochi giorni prima della fine, giunse pietoso un coma profondo.
Solo la voce di lui riusciva a volte ad oltrepassare quell’impenetrabile barriera e dal profondo dell’abisso l’amore immenso di lei riusciva a rispondere flebilmente: “amoe mio”. Quell’ “amoe” privo della erre fu, era e resta per lui la cosa più potente e straziante di qualsiasi altra al mondo.