martedì 29 maggio 2007

URANIO IMPOVERITO.LA SINDROME DEI BALCANI

Con il permesso del dr. Antonio http://disordinatamente.blog.tiscali.it/ pubblico un suo post che mi sembra estremamente importante e che pochi hanno letto
Una grande tragedia nascosta.postato da antonio76
Giovedi 24 Maggio 2007 ore 22:33:43
Con gioia, attenzione, rispetto e profonda malinconia accolgo la mail di una lettrice di questo blog che mi ha chiesto di utilizzare questo spazio per parlare di un problema grave e purtroppo tenuto fin troppo nascosto. Le morti dovute all' utilizzo dell'uranio impoverito. La Sindrome dei Balcani. Molti italiani sono morti e stanno morendo. Un tema grave e scottante, le cui responsabilità vengono tenute coperte in modo ignobile. Franca Rame in questi anni ha cercato di porre luce su questi fatti e ha reso possibile la diffusione dei lavori della dottoressa Gatti che si sta impegnando anima e corpo affinchè si sappia di più su questa tragedia nascosta. Ringrazio Giovanna che mi ha spedito questo articolo e invito tutti alla massima attenzione. Diffondere queste notizie è importante. E davvero, in questi blog non si può sempre parlare di gatti, cani e cuccioli vari. Siamo seri. Articolo della Dott.ssa Antonietta Gatti, Laboratorio dei Biomateriali-Dipartimento di Neuroscienze Università di Modena e Reggio Emilia Nel 2002 la comunità europea finanziò un progetto chiamato Nanopathology, un neologismo che portava in sé la discussione di un problema non ancora avvertito, forse addirittura ignorato del tutto, vale a dire l’impatto che polveri di dimensioni piccolissime, fino a poche decine di milionesimi di millimetro, possono avere sulla salute umana. Nell’ambito di quel progetto si sviluppò una tecnica nuova di microscopia elettronica che consentiva d’individuare quelle polveri all’interno di tessuti malati prelevati dal paziente e di determinarne forma, dimensione e chimica elementare. Con questa metodica si sono analizzati moltissimi campioni prelevati da soggetti colpiti da patologie come varie forme di cancro, leucemie, linfomi: tutte malattie di origine ignota ma che, da queste nuove osservazioni, parevano avere spesso in comune la presenza di polveri inorganiche. Nel 2002 esplose vistosa anche in Italia, fra i nostri soldati impegnati in quella che era stata la Jugoslavia, la cosiddetta “sindrome dei Balcani”, un insieme di sintomi, spesso gravi, apparentemente assai difficili da correlare. A quel tempo i mass media indicavano nell'uranio impoverito, certamente tossico e blandamente radioattivo, usato per costruire bombe, il possibile responsabile. Nascevano quindi associazioni che chiedevano, e tuttora chiedono a gran voce, la sua eliminazione come mezzo di distruzione. A quel tempo diverse domande si potevano porre, domande che, però, nessuno pensò di proporre: se è l'Uranio impoverito a causare queste patologie, come mai non si ammala anche chi passa la giornata a lavorare al tornio la punta d'uranio delle bombe? E poi, come fa un materiale debolmente radioattivo a causare patologie di organi non raggiungibili dalla debole radioattività? Ancora, come mai lo stesso materiale provoca alcune volte tiroiditi, altre leucemie, altre volte ancora diverse forme di cancro? E come mai si ammalano anche alcuni soldati nei poligoni di tiro dove, però, non si spara Uranio impoverito? E continuando, come mai esistono patologie simili fra persone (civili) che non sono mai andate in guerra? Perché scomodare inneschi diversi per patologie simili, ad esempio, cancro? Nel dibattere quei quesiti, pensai che se era l'Uranio impoverito, con la sua pur modesta radioattività, a causare i problemi di salute, questo doveva necessariamente trovarsi nei tessuti patologici. Cominciai allora ad analizzare alcuni tessuti di soldati ammalati o deceduti dopo la malattia che li aveva colpiti al ritorno dalle loro missioni. Nei 42 casi esaminati di campioni di soldati (alcuni deceduti, altri ammalati e poi guariti), non mi accadde mai di trovare l'Uranio impoverito, ma qualcosa, a mio avviso, di più pericoloso: l'inquinamento bellico. Che cosa significa? Quando bombe come quelle all'Uranio impoverito o al Tungsteno esplodono contro un bersaglio, sviluppano temperature molto elevate: più di 3000°C per l’Uranio, un dato che trovai in un rapporto redatto dalla base militare statunitense di Eglin, Florida, nel 1978, assai di più per il Tungsteno. A queste temperature, tutto quanto si trova nell'intorno del punto di scoppio, viene fuso e vaporizzato. Si forma così un aerosol che viene disperso finemente in atmosfera, in ogni direzione. Questa polvere finissima contiene tutti gli elementi che si trovavano all'interno dell'esplosione, però ricombinati in un modo che può essere anche completamente diverso da quello originale. Ad esempio, se si è colpito un carro armato, tutti gli elementi chimici che in questo erano presenti vengono fusi e ridotti a polvere finissima. I soldati si trovano in zone distrutte, devastate, dove, però, aleggia ancora questa polvere che non viene mai misurata e che può restare sospesa per tempi lunghissimi.Una volta creato questo inquinamento, chimicamente e fisicamente impossibile da eliminare, non abbiamo strumenti per prevedere quando si depositerà al suolo e nemmeno dove lo farà, ma, una volta depositato sul terreno trasportato da pioggia e neve, basterà un minimo soffio di vento per risospenderlo di nuovo. In pratica, il comportamento di queste polveri è molto simile a quello di un gas e, dunque, come un gas vengono inalate ed entrano nei polmoni per uscirne entro poche decine di secondi e finire nel sangue. Al momento, per loro non sono stati individuati meccanismi di eliminazione. Le barriere fisiologiche, compresa quella ematoencefalica che protegge il cervello, non riescono a trattenerle e a sbarrarne il cammino. Dunque, trasportate dal sangue, queste particelle finiscono in ogni organo o tessuto, dove sono trattate come corpi estranei e dove, per questo, danno luogo a forme infiammatorie croniche che hanno la possibilità, senza che questa costituisca una matematica certezza ma resta confinato alla probabilità, di trasformarsi in tessuti tumorali. Dato, poi, che queste polveri contengono pure tanti elementi chimici diversi, è ovvio che alcuni di loro, l’Arsenico, il Mercurio, il Piombo, ad esempio, saranno tossici per loro stessa natura e questa tossicità sarà ovviamente espletata a carico dell’organismo. Corpi estranei di dimensioni così ridotte possono contaminare anche lo sperma, i cui campioni analizzati provenienti anche da alcuni soldati deceduti hanno mostrato queste presenze estranee che possono esercitare una tossicità locale sugli spermatozoi. Ma la cosa più sorprendente che si è dovuta constatare è che, donando il seme alla partner, questa ne resta contaminata e sviluppa a livello vaginale piaghe sanguinanti molto dolorose, ribelli ad ogni trattamento farmacologico o chirurgico, una patologia nuova denominata “malattia del seme urente”. Quindi, si deve constatare che l'inquinamento creato da bombe sofisticate, oltre ad essere inalato o ingerito mangiando, ad esempio, vegetali cresciuti nelle zone colpite, può essere "assimilato" e , ritornando a casa, trasferito alla partner, contaminandola. La malattia brevemente descritta trova la sua spiegazione se si considera che detriti essenzialmente metallici (Cobalto, Antimonio-Cobalto, Acciai, Piombo, ecc.) di dimensioni al di sotto del micron, a contatto con la mucosa vaginale e uterina, per la loro non biocompatibilità, inducono bruciori, infiammazioni e, nei casi più gravi, anche necrosi cellulare. Occorre poi considerare che, mentre nel soldato la concentrazione di particelle nello sperma diminuisce ad ogni eiaculazione, la partner le accumula e si contamina sempre di più. La difesa americana consigliava ai propri soldati di non procreare per un anno (ora sembra che il consiglio sia esteso a 3 anni) dopo il ritorno dalla missione. Questa precauzione, tuttavia, non risolve il problema, poiché, se il seme contaminato rimane in situ, ha la possibilità di estrinsecare la sua tossicità sia sugli spermatozoi sia sui tessuti circostanti, mentre se viene donato, il paziente se ne libera ma contamina la partner. Un'eventuale fertilizzazione, poi, avverrebbe in un sito contaminato e non si può assicurare che l'embrione risulti sano. La cosa più sicura e consigliabile è, allora, evitare contatti con quello sperma usando un preservativo. Questa precauzione deve essere suggerita subito, perché non deve essere consentito di portare la guerra in casa senza che il padrone di quella casa ne sia consapevole e conceda la propria autorizzazione.Ricordiamo il numero di conto corrente per la sottoscrizione in favore delle vittime dell'Uranio Impoverito:conto corrente postale n. 78931730 intestato a Franca Rame e Carlotta NaoABI 7601 - CAB 3200 Cin U

Un interessante bassorilievo

Il bassorilievo della foto è molto antico e si trova a Foix (Francia) nella Chiesa dedicata a Maria Maddalena e rappresenta l'ultima cena con la Maddalena alla sinistra di Gesù.
Secondo gli esperti la figura, apparentemente femminile, che compare nell'ultima cena di Leonardo da Vinci, nella chiesa di S.Maria delle grazie a Milano, non è la Maddalena ma S.Giovanni.
Tuttavia questo bassorilievo sembra quasi contraddire gli esperti.

lunedì 28 maggio 2007

Le calosce

Avevo quattordici anni ed eravamo a Roma da un paio di mesi, era inverno e pioveva allegramente da vari giorni sicché, quando tornavamo a casa, dopo la scuola, le nostre scarpe erano grondanti e inzaccherate, e così anche piedi e calzini. A papà venne una grande idea: le calosce!
Oggi con questo temine si intende un paio di scarpe di gomma impermeabile, allora le calosce erano delle “soprascarpe”, una specie di guaina nera, di gomma lucida, che si calzava sopra la normale calzatura e ingrossava ulteriormente le mie già larghe “basi d’appoggio”.

A me questa lucida pellicola parve bellissima, anche perché copriva le magagne dell’ormai consunto e risuolato paio di scarpe invernali che indossavo per andare a scuola. Bisogna dire che, malgrado la quasi prestigiosa posizione di papà, a quell’epoca non si nuotava nell’oro: ci portavamo dietro i debiti fatti per le cure di mamma, recentemente venuta a mancare, le spese del trasloco da Messina a Roma e quelle scolastiche (alla fine si erano dovuti ricomprare diversi libri).
A questo va aggiunto anche un certo modo di vivere spartano, in parte legato ai tempi e, in parte maggiore, agli usi familiari, per i quali gli acquisti annuali di vestiario consistevano, per ogni figlio, in un completo invernale ed una o due paia di calzoncini estivi, un paio di scarpe marrone per l’inverno, un paio di sandali per l’estate, ed un imprecisato numero di accessori (camicie, calzini, fazzoletti ecc.), spesso rappezzati e, in parte, riciclati dal maggiore al minore dei fratelli.
Si aggiunga al tutto il fatto che né mamma né papà avevano mai palesato grandi capacità di amministrazione e che, mancata mamma, papà si era dimostrato ancora più impacciato in questo compito, al punto di dover ricorrere a volte ai risparmi che io e mio fratello avevamo fatto sulla nostra paghetta per pagare la bolletta della luce che, a suo dire, gli arrivava sempre “fra capo e collo”.
A queste difficoltà si veniva ad aggiungere il problema della nostra carente preparazione scolastica: l’anno prima avevamo combinato ben poco ed avevamo raggiunto la promozione solo perché l’insegnante di lettere ( Italia De Lieto, grande come professoressa e come persona), al corrente della situazione familiare, non aveva infierito ed aveva usato la manica larga. Adesso ci trovavamo ancora peggio perché i nostri trascorsi non interessavano più di tanto i nuovi insegnanti né tanto meno i nuovi compagni del prestigioso liceo-ginnasio Terenzio Mamiani che ci trattavano con sufficienza se non con aperta ostilità.
Insomma rischiavamo la bocciatura e la zia Dina, sorella di papà, ci mandò a prendere lezioni di latino e greco dalla signorina Mugnai, nipote, se ben ricordo, di un prestigioso nome del mondo universitario ed anche politico (il prof. Lucio Lombardo Radice). Costei era allora studentessa della facoltà di lettere, con un prestigioso curriculum, sia scolastico che universitario, e si guadagnava qualcosa dando lezioni private e facendo supplenze (allora si poteva anche prima della laurea).
Il suo nome era Elena, era una ragazzona bionda, alta, con due meravigliosi occhi verdi ed un naso a patata sull’ovale del viso sempre sorridente. Ci accolse, fradici di pioggia nei nostri impermeabilini alla “tenente Sheridan”, in una vasta sala della casa paterna dove, in un angolo, sopra un tavolo rotondo coperto di velluto verde, erano disposti libri e vocabolari usati per le lezioni.
Su una parete, un bel caminetto acceso crepitava allegro riscaldando l’ambiente che, in quel buio pomeriggio invernale, prendeva luce da una lampada a piede, posta in prossimità del tavolo, che illuminava di una luce calda, lasciando nella penombra il resto di quel vasto ambiente affollato di libri. Elena ci accolse con calore ed affetto mettendoci subito a nostro agio ma, quando ci invitò a levare le calosce per farle asciugare vicino al fuoco, io e mio fratello ci guardammo smarriti.
Non potevamo levare quei lucidi involucri senza mettere a nudo le nostre scarpe sporche e sdrucite e tirammo giù una serie infinita di “ma no, ma non importa, ma si asciugano lo stesso, non ce n’è bisogno” e così via, fin quando la poveretta non rinunciò ad insistere con nostro grande sollievo. Elena si rivelò in seguito molto più di un’insegnante privata con cui fare i compiti. Credo che la sua comprensione ed il suo sincero affetto sia stato veramente fondamentale in quei momenti di grande solitudine e sconforto, momenti in cui ci mancava non solo la mamma ma anche il conforto di un amico.
Papà era ancora una figura non confidenziale e zia Dina, che pure fu sempre affettuosa e presente, era ancora una figura troppo diversa da nostra madre e, nella nostra mentalità adolescenziale, era vista con una certa ostilità, quasi come un’intrusa che volesse occupare una posizione non sua. Il fatto che papà le si affidasse in modo quasi acritico aumentava questa distanza ed Elena più che l’insegnante di greco e latino fu per noi una confidente ed una consigliera. Seppe sempre smorzare le tensioni ed anche asciugare qualche lacrima che, per orgoglio, non veniva versata in famiglia. Purtroppo l’anno non andò comunque molto bene: al secondo trimestre arrivò a casa una lettera della scuola che avvertiva i genitori del rischio che non venissimo ammessi agli esami di quinto ginnasio.
Ci fu di conseguenza il Gran Consiglio di famiglia in cui zia Dina sentenziò che dovessimo cambiare scuola. Mio fratello, poco più grande di me, ma da sempre meno volenteroso e grintoso, accettò, ma io mi impuntai duramente anche se fui obbligato a promettere che avrei riguadagnato terreno. Poiché l’iniziativa della lettera era stata dell’insegnante di francese, la prof. Lami, una signora di origine slava, amatissima dalla classe che lei aveva seguito fin dalla media, zia Dina si obbligò a nuove spese, mandandomi a lezione dalla signora Bollea, la moglie del famoso professore di psichiatria infantile, una signora affabile ma severa che mi sottopose ad una massacrante routine. Quando avevo cominciato commettevo circa tre errori per frase (usando il vocabolario) perché lo standard d’insegnamento dell’insegnante di Messina, la signora S....., era molto basso ed io non ero certo tra i migliori.
Alla fine dell’anno conversavo e traducevo in simultanea e, senza vocabolario ( il cui uso in classe era assolutamente vietato) non infilavo più di un paio di errori ortografici per compito. Io stesso non ci credevo! Latino e greco non raggiunsero mai quello standard; nel latino, bene o male, sono sempre riuscito a lambire la sufficienza ma il greco me lo portai comunque a settembre. Per fortuna il professore che mi esaminò e che sarebbe stato il mio insegnante anche al liceo, tale Antonino Musmarra, era un uomo di grande intelligenza e, per quanto apparisse sempre scontroso e burbero, anche di grande umanità sicché, alla fine, riuscii a conquistare la licenza ginnasiale. Qualche tempo dopo, lo stesso insegnante, parlando con mia zia Dina ebbe a dire la storica frase: “Signora, suo nipote il greco non lo sa, ma non lo saprà
MAI! Perciò lo promuovo”.

Julien

domenica 27 maggio 2007

Shoah ( שואה,la distruzione)

Mi è stato chiesto perchè ho usato il termine "distruzione" e non "olocausto". E' molto semplice: il significato letterale di olocausto significa "offerta sacrificale a Dio di molte vittime ". Ovviamente, anche se non usato in questo senso, questo termine può apparire offensivo nei confronti dei poveri martiri dell'inferno nazista che certo non erano un'offerta a Dio. Pertanto "la distruzione" è una discreta e più esatta traduzione della parola "Shoah".