lunedì 22 marzo 2010

Il giornalino


L’impulso iniziale è quello di scrivere … c’era una volta, così come iniziavano le favole. Tuttavia non si tratta di una favola, e anche l’epoca non è poi così lontana da perdersi nella notte dei tempi o nei misteriosi sentieri della fantasia. Inizierò quindi con “c’è stata un’epoca”.
Sì, c’è stata un’epoca in cui le droghe erano solo le spezie che le nostre madri acquistavano dal droghiere , un’epoca in cui il “bullismo” era quasi sconosciuto e persino quello che si praticava nelle caserme consisteva, da parte dei “nonni” e cioè dei soldati di leva al termine del servizio militare, nel fare “il sacco” al lenzuolo del letto delle reclute o, nel peggiore dei casi, nel sottoporre i più riottosi ad un “gavettone” di acqua fresca. Era un’ epoca di sogni e di speranze: per i giovani il lavoro non era un mito e l’economia andava al galoppo.
Era un’epoca in cui il nostro Paese poteva andar fiero, non degli attuali pennivendoli, maestri di quello squallido pettegolezzo che si maschera dietro il barbarico termine di “gossip”, ma di giornalisti veri, di maestri della penna e dell’informazione come Giovanni Mosca, Oriana Fallaci, Corrado Alvaro, Luigi Barzini, Enzo Biagi, Dino Buzzati , Leo Longanesi, Mario Missiroli, Indro Montanelli e tanti, tanti altri.
Attiravano in particolare i caustici articoli che il geniale, e ormai purtroppo sconosciuto ai più, Augusto Guerriero, pubblicava settimanalmente su “Epoca” sotto lo pseudonimo di Ricciardetto. Era comunque un piacere leggere e entusiasmarsi alla prosa forbita e intelligente che sprizzava dalle pagine di giornali e riviste e che ci faceva vivere luoghi e situazioni strane e avventurose sapientemente narrate dagli “inviati speciali”.
Nacque così in me il desiderio, poi non realizzato, di fare il giornalista, ma come iniziare? Talvolta inviavo qualche articolo o qualche raccontino al “Travasetto”, alla “Domenica del Corriere” o ai “Romanzi di Urania”. Spesso mi pubblicavano, ed era una grande soddisfazione, ma non mi bastava. Mi venne l’idea di creare un giornalino scolastico da diffondere tra i miei compagni di Liceo. L’idea fu accolta con entusiasmo dai miei tre amici più cari, Angelo, Gianni e Lucio; ma quale nome dare al giornalino? E poi, come realizzarlo? Il nome fu presto trovato, era da poco uscita una nuova tecnica cinematografica panoramica: il cinemascope. Il nostro giornale voleva essere una panoramica sulla scuola? Ok, perfetto, lo chiamammo Scuolascope. Già da tempo avevo acquistato a rate una Olivelli lettera 22 e, sia pure picchiettando con sole due dita, avevo raggiunta una discreta velocità.
Dando fondo alle nostre magre “paghette” acquistammo diverse risme di carta e approntammo il primo esemplare. Per poterne fare un centinaio di copie utilizzammo il vecchio ciclostile della locale sede del PCI al quale avemmo accesso grazie all’aiuto del nostro compagno Diego, detto Popoff , che era l’unico comunista iscritto al partito della nostra classe.
Vendevamo il giornalino, peraltro con risultati non entusiasmanti, agli altri studenti del Liceo al prezzo di 10 lire e ignoravamo che persino una tale innocua attività dovesse essere sottoposta alle autorità e autorizzata da precise disposizioni di legge.
Uno dei nostri professori, quello di matematica, era il bravissimo professor Di Stefano: un uomo robusto, sulla cinquantina, dall’aspetto burbero e intransigente che nascondeva in realtà un cuore dolcissimo e paterno. Fu uno dei nostri primi sostenitori e contribuiva con ben 100 lire all’acquisto del nostro giornale.
Un giorno noi quattro, i cosiddetti direttori di “Scuolascope” fummo convocati ufficialmente in Questura con tanto di avviso recapitatoci per posta. In verità la cosa ci preoccupò non poco, tuttavia il giorno stabilito ci presentammo tutti insieme e, scherzosamente, salimmo le scale per recarci dal funzionario che ci aveva convocato, tenendo i polsi sovrapposti come se fossimo stati ammanettati.
Non sapevamo che la notizia di questa convocazione fosse già circolata in ambito scolastico, ma così era stato. Mentre salivamo quelle scale un vocione risuonò alle nostre spalle: “cosa ci fate qui?”. Sorpresi, ci girammo e vedemmo il professore De Stefano che, con faccia truce e aspetto rabbuiato, saliva le scale a quatro a quattro dietro di noi.
-“Buongiorno professore, noi siamo stati convocati…” e sventolammo gli avvisi ricevuti.
-“Date qui, e non vi muovete!” tuonò il professore, e strappatici i foglietti di mano salì borbottando le scale e, scostando con un semplice gesto della mano un poliziotto che cercava di fermarlo, spalancò la porta dell’ufficio dove eravamo stati convocati e la rinchiuse sbattendola.
A malapena sentimmo la voce sommessa e pigolante di qualcuno che, in tono di scusa cercava di giustificarsi, ma quella voce era soverchiata da quella del nostro professore che risuonava alta e forte come il rumoreggiare dei tuoni nei temporali primaverili. Non riuscivamo a comprendere tutto ma qualcosa ci giunse alle orecchie: “sei sempre stato un asino alle mie lezioni, ma io ti ho fatto diplomare lo stesso e speravo che saresti diventato un bravo questurino! Cerca di dare la caccia ai malviventi, ché ne abbiamo fin troppi , invece di intimorire e disturbare i miei allievi!”.
Seguì un concitato vociare in tono più attutito e non più comprensibile, infine il nostro professore uscì trionfante dall’ufficio e, passando davanti allo sbigottito poliziotto di guardia che si mise sull’attenti, ci mise una mano sulla spalla e … “Andate a casa ragazzi, tutto a posto, ma togliete dal giornalino l’indicazione del prezzo”.
Inutile dire che il nostro glorioso “Scuolascope” continuò la sua uscita per tutto l’anno scolastico, con gli ultimi numeri addirittura stampati in tipografia, ma questa … è un’altra storia.