venerdì 7 marzo 2008

10 e lode

Ringrazio MasterMax per avermi conferito il premio 10 e lode con la seguente affettuosa motivazione:
Sergio: per la sua abilità nell'appassionarmi ogni volta che leggo un suo racconto, con il suo modo di scrivere fresco e alla sua ironia mescolata sempre ad una dose di amarezza, e alla fine mi ritrovo sempre con gli occhi lucidi.
A mia volta lo conferisco alla cara Bruja per la sua vitalità, per la dolcezza materna che traspare dai suoi post e per il suo carattere eclettico.
Avrei voluto includere l'amica Elle e Freespiritman, ma ho visto che, giustamente, l'hanno già meritato.

martedì 4 marzo 2008

LA FARMACISTA


Tutti conoscevano il bravo dottor Minicucci, il medico condotto. Si può dire che tutta la popolazione giovane e meno giovane del paese fosse passata per le sue mani.
Preparato, onesto, rispettato e sempre disponibile bastava fargli sapere di aver bisogno delle sue cure e poco dopo ti si presentava in casa coi suoi capelli bianchi ed il suo sorriso allegro.

Spesso bastava la sua sola presenza per fare scomparire o comunque alleviare qualsiasi malessere.
Dopo aver accuratamente visitato l’ammalato, si sedeva tranquillamente al tavolo, estraeva la sua preistorica stilografica dal pennino d’oro, e tratto un voluminoso ricettario da una vetusta valigetta a soffietto vergava con calma meticolosa e, cosa strana per un medico, con una impeccabile calligrafia, lunghe ed accurate ricette.
Normalmente quando era necessario recarsi nel centro del paese ero incaricato io di fare la spesa e così avveniva anche quando occorreva comprare delle medicine.
La farmacia si trovava proprio in piazza. Era un locale grande e antico; lungo le pareti correvano delle scansie sulle quali erano disposti, in ordine preciso, vasi ed ampolle contenenti sostanze medicali. La professione del farmacista era, in quel tempo, ben diversa da quella moderna. Non esistevano infatti le ben note confezioni di medicinali che troviamo oggi. Per quanto mi ricordi, gli unici medicinali già pronti in apposite fiale che dovevano essere tranciate con un minuscolo seghetto, erano quelli che dovevano essere iniettati.
L’iniezione era un procedimento alquanto complesso: le siringhe erano di robusto vetro molato e duravano anni ed anni fin quando non si rompevano per qualche incidente; anche gli aghi venivano usati più e più volte. Questi, poi, erano corredati di un sottilissimo filo d’acciaio che veniva introdotto al loro interno per assicurarne la pervietà e rimuovere eventuali ostruzioni. Ago e siringa dovevano essere preventivamente sterilizzati e ciò si otteneva ponendoli in un apposito contenitore che veniva riempito d’acqua e fatto bollire per circa 5/10 minuti.
Poiché ero spesso vittima di affezioni bronchiali, venivo abitualmente curato con iniezioni di “Creosotina”, particolarmente dolorose quando l’ago veniva usato troppe volte, perdendo per così dire la sua affilatura.
La farmacista era una giovane donna, alta e prosperosa dai lunghissimi capelli biondi che le scendevano fin quasi alla vita. Non ho mai saputo il suo nome. In paese veniva considerata una straniera perché proveniva dal Friùli, forse da Udine o da Gorizia. Le donne, in particolare, la guardavano con ostilità e invidia e quando attraversava la strada, dritta e impettita nel suo camice bianco, chinavano il capo sui loro lavori per evitare di salutarla, mentre gli uomini sogghignavano e si davano di gomito. Normalmente veniva definita la “speziala” e, talvolta, la “tosa striaca” (la ragazza austriaca?).
I giovani bellimbusti del paese oziavano spesso nei pressi della farmacia come tanti galletti, vociando ad alta voce per attirare l’attenzione e talvolta entravano dalla speziala con le motivazioni più sciocche cercando di far colpo.
Per me era un piacere portare in farmacia le ricette del dottor Minicucci. L’ambiente, odoroso di cera e di spezie, mi affascinava. Sugli scaffali più alti grandi vasi di porcellana di vari colori portavano impresse delle scritte in un linguaggio esotico che non riuscivo a comprendere. La farmacista mi accoglieva sempre con gentilezza e con un sorriso. Leggeva la ricetta, prelevava le sostanze necessarie da diversi contenitori, le pesava accuratamente in una piccola bilancia dotata di una serie di minuscoli pesi di ottone, le amalgamava e le triturava in un mortaio e poi le confezionava in diverse bustine monodose.
Col tempo si era creata una sorta di strana muta amicizia tra quel biondo ragazzetto di dieci anni, sfollato dalla città, e quindi a sua volta “straniero” e la “tosa striaca”. Sempre più spesso insieme con il pacchetto contenente i medicinali mi veniva regalato un bastoncino di liquerizia.
Il 1945 si trascinava lento. La grande guerra per noi era finita ma la piccola guerra, quella civile anch’essa fatta di orrori, uccisioni e rappresaglie era iniziata.
Il paese, precedentemente tranquillo, era spesso attraversato da piccole bande di uomini armati dal volto truce e sospettoso, alcuni del paese stesso ed altri arrivati da chi sa dove. Una sera, sul tardi, un gruppetto di giovinastri del paese, ubriachi di vino e inebriati dall’anarchia conseguente alla sparizione di qualsiasi forza dell’ordine, si raggrupparono davanti al cancello del cortile sparando qualche colpo di fucile in aria e cantando a squarciagola, sul motivo di “bandiera rossa”: - Avanti popolo, che siamo in tanti, vogliamo i campi, di Anzoetto Pengo-
Angelo Pengo, il vecchio contadino proprietario della casa in cui eravamo sfollati e della quale occupavamo due stanzette, chiuse le pesanti imposte di legno delle finestre che bloccò con una sbarra di metallo e fece lo stesso con la porta d’ingresso. Poi, con l’anziana moglie, si sedette accanto al grande camino della cucina poggiando sulle ginocchia il fucile da caccia.
I canti e gli schiamazzi durarono a lungo ma poi, a notte fonda, il gruppetto si disperse senza aver fatto alcun tentativo di varcare il cancello.
Durante la notte, io e i miei genitori, che dormivamo al piano di sopra. venimmo destati dal chiarore che penetrava dalle finestre e da alcune grida: Il casolare di fronte al nostro dall’altra parte della strada, quello della famiglia Picciù, era in fiamme e lunghe fila di contadini facevano la spola dal pozzo alla casa tentando di spegnere l’incendio con i secchi pieni d’acqua.
Chi aveva appiccato il fuoco? E perché? Quali strane vendette, quali rancori mai sopiti trovavano ora il loro sfogo? Non l’avremmo saputo mai.
Passarono i giorni, le prime avvisaglie di un estate calda e afosa erano arrivate. Mia madre ebbe un’altra delle numerose dolorose crisi, genericamente denominate “mal di fegato”, che le facevano passare la notte in bianco, tra lamenti e borse d’acqua bollente applicate sul fianco.
Ancora una volta, come sempre, accorse il buon dottor Minicucci con le sue ricette, e ancora una volta venni spedito in farmacia.
Giunto in piazza la trovai stranamente affollata da uomini vocianti e donne sghignazzanti che si davano grandi manate sui fianchi. La farmacia era chiusa. Incuriosito mi intrufolai tra la folla e…vidi.
Nel centro della piazza era stata costruita una rozza piattaforma di legno sopraelevata. Sulla piattaforma era stata posta una sedia e seduta sulla sedia, con le mani legate dietro la schiena, c’era una donna.
Uno stolido giovinastro barbuto, con un sogghigno stampato sul volto, le stava rasando i capelli a zero e per ogni ciocca che cadeva sul tavolaccio dalla folla si alzavano grida di giubilo, insulti e battimani. La donna aveva gli occhi chiusi, il viso pallido e tumefatto, ciondolava lentamente la testa ora a destra ora a sinistra come in preda ad un’immensa sofferenza. Dal collo pendeva un cartello con una scritta che non compresi “collaborazionista”.
Non conoscevo quella donna, il suo capo chino e il volto disfatto e sofferente me lo impedivano, e inoltre non comprendevo perché la stessero sottoponendo a quella tortura.
Eppure, eppure, scorgevo qualcosa di familiare: un’ultima, lunghissima ciocca di capelli biondi, brandita in aria come un trofeo di caccia, mi fulminò di un’improvvisa luce di riconoscimento: era la mia amica, la speziala!
Un dolore acuto mi trafisse il petto mentre lacrime roventi cominciavano a scorrermi sul viso, mi allontanai in fretta dalla folla ma una mano di ferro mi afferrò un braccio. Alzai gli occhi. Un uomo con un gran cappellaccio nero sulla testa ed il solito fazzoletto rosso attorno al collo mi apostrofò con rabbia sputacchiando le parole come proiettili: “ piangi eh. La conosci eh. Sei anche tu un fascista eh. E magari anche tuo padre è un fascista eh?!”
Ma quel ceffo non sapeva una cosa: non ero più il timido, educato ragazzino perbene venuto tre anni prima dalla città. Tre anni di vita nella strada, continuamente aggredito e massacrato da ragazzetti selvaggi e primitivi mi avevano insegnato a combattere, a difendermi ed a massacrare a mia volta con le mani, coi piedi, con i sassi, con le fionde, con i bastoni.
Fissai l’uomo negli occhi e mentre una vampata d’odio e di rabbia mi riscaldava il sangue gli sferrai un tremendo calcio in uno stinco con i miei zoccoli di legno. Mi lasciò immediatamente con un urlo di dolore e si piegò su se stesso. Poi, zoppicando, cercò di inseguirmi. Ma era come una tartaruga che volesse raggiungere una lepre, lo distanziai con estrema facilità e ben presto scomparve dalla mia vista.