sabato 5 settembre 2009

L'anatema di Tihuta



L’ANATEMA DI TIHUTA

L'impalamento era un antico metodo di messa a morte di una persona tramite tortura, consistente nell'infilzare il condannato con un palo di legno, per poi sollevarlo in posizione verticale fissando il palo nel terreno. Affinché entrasse con facilità nel corpo del condannato, la punta era spalmata di olio o miele, il punto di entrata poteva essere l'ano, la vagina oppure una parte bassa dell'addome, il punto di uscita poteva essere la bocca o una scapola. Se non erano lesi organi vitali, il supplizio poteva protrarsi per molti giorni, prima della morte. (Wikipedia)
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Tihuta A.D. 1463

Lo shaykh Hascim Ibn Jaber sospirò e si avvolse più strettamente nel suo aslham, utilizzando il cappuccio non tanto per difendersi dal gelo quanto per premerlo sul naso e sulla bocca per mitigare il tremendo fetore dell’aria.
Al suo fianco, pallido in volto, cavalcava il suo giovane figlio Mahmud reggendo alto lo stendardo con le insegne di messaggero del Sultano.
Solo cinque mamelucchi: tre circassi, un turco e un mongolo erano ancora in vita. L’iniziale scorta di dodici guerrieri aveva già perso sette uomini.
Nelle ultime miglia erano stati attaccati tre volte, Orde spettrali di straccioni bene armati erano sbucate di colpo dalla nebbia mefitica che avvolgeva le foreste circostanti e con urla bestiali avevano attaccato la scorta dello shaykh. Le scimitarre dei mamelucchi volteggiando mortali per l’aria avevano fatto strage di quella marmaglia che ogni volta, improvvisamente com’era comparsa, era velocemente svanita nel nulla.
- Padre, giungeremo mai vivi a Tihuta?-
- Manca poco, figlio, questi attacchi sono solo dimostrativi del disprezzo che Kaziglu Bey vuole dimostrare nei nostri confronti. Vedi, io e te non siamo stati attaccati, solo la nostra scorta. E Kaziglu Bey, qualora ci lamentassimo, cosa che certamente non faremo, ci farebbe torturare e uccidere subito e direbbe, offeso e sdegnato, che questi attacchi sono opera di banditi di strada, feccia senza divisa e senza insegne o addirittura sbandati e disertori delle nostre stesse truppe.-

I cavalli arrancavano faticosamente affrontando il ripido passo montano in quel gelido inverno del 1463; la nebbia, a tratti, nascondeva pietosamente come un sudario l’infinita distesa di pali che fiancheggiavano la strada, sui quali marcivano e si disfacevano i corpi di 12.000 guerrieri ottomani . Erano, per loro sfortuna, i sopravvissuti alla disfatta loro inflitta nella gola di Plenari dalle truppe di Vlad III° Drakul, il Voivoda di Valacchia tristemente noto a Costantinopoli come Kaziglu Bey, il principe impalatore.
In lontananza, quasi presagio di morte, incombeva minacciosa l’ombra nera dei Carpazi.

La fortezza di Tihuta era apparentemente piccola ma robusta. Una possente muraglia di pietra viva intervallata da quattro torrioni quadrati racchiudeva un vasto spiazzo centrale ove si ergeva un fabbricato rettangolare, merlato, alto una quindicina di metri. L’apparente semplicità della costruzione ingannava il visitatore poiché la vera estensione della fortezza era nel sottosuolo, ove si celavano le segrete e degli sconosciuti passaggi che si addentravano in oscure caverne.
Nella grande sala al piano terreno le torce lungo le pareti gettavano una fioca luce tremolante, ciocchi di pino resinoso e di abete ardevano nel camino e temperavano l’aria gelida e fumosa dell’ambiente. Il principe sedeva su di un robusto sedile di quercia dall’alta spalliera. I messaggeri, non appena giunti, s’inchinarono profondamente porgendogli la pergamena sigillata con il messaggio del Sultano Mehemet II° El Fatih.
Vlad ruppe lentamente i sigilli e lesse. Il suo volto si rabbuiò e i suoi occhi magnetici lanciarono fiammate d’odio sui due ambasciatori.

- Dunque – disse con voce bassa e sibilante – quel cane del vostro padrone, invece di implorare il mio perdono per il suo ignobile attacco nelle mie terre, pretende di impormi tributi quasi fossi un suo vassallo! E inoltre m’invia due miserabili servi che osano stare in mia presenza con il capo coperto!-
Il giovane Mahmud s’irrigidì e trascurando l’occhiata di avvertimento lanciatagli dal padre, alzò fieramente la testa e disse con voce alta e chiara:
- Mio signore, il nostro nobile lignaggio è antico e fuori discussione, e il nostro copricapo è il simbolo della nostra religione e mai e poi mai potremmo scoprirci di fronte a un infedele!-
Il principe sorrise e la sua voce divenne calda e suadente:
-Apprezzo il coraggio, quando lo vedo, e apprezzo la fede, quando la vedo. Credetemi quindi se vi dico che non voglio mai che perdiate quel prezioso turbante.-
Un ordine secco e imperioso. Subito le guardie portarono degli enormi chiodi usati per saldare le travi delle fortificazioni . Con un solo colpo di mazza li conficcarono nel cranio dello sventurato giovane che cadde al suolo senza un lamento.
-No, maledetto! Noo! – Abbandonata ogni esitazione lo shaykh Hascim si gettò ad abbracciare il cadavere del figlio e guardando il principe con furore puntò un dito contro di lui.
- Che tu, Kaziglu Bey, i tuoi figli e tutta la tua discendenza siate maledetti in eterno! Allah akbar, sia benedetto il suo nome, non lascerà impunito questo delitto e tu e tutta la tua razza infame farete una fine orrenda!-
-Non sia mai che un padre non segua la sorte del figlio- disse serenamente il principe, e fece un cenno alle guardie.
-Mio signore – sussurrò il comandante degli armigeri – dobbiamo ora impalarli su alti pali dorati come si conviene a dei nobili?-
-No, amico mio, gettate entrambi nel pozzo oscuro, poi tagliate le mani e la lingua alla loro scorta e gettate anch’essi, vivi, nel pozzo. Che tutti sappiano che i messaggeri del Sultano non sono mai giunti a Tihuta.-


Tihuta A.D. 1970 – novembre

La Direzione Generale per la Sicurezza delle Persone ( più comunemente chiamata Securitate), fu fondata ufficialmente il 30 AGOSTO 1948 in base alla Delibera 221/30 del Presidium della Grande Riunione Nazionale. Essa esisteva comunque già nei fatti, dall'agosto 1944 quando i comunisti cominciarono a infiltrarsi nel Ministero degli Affari Interni su grande scala. Il suo scopo ufficiale era: "Difendere le conquiste democratiche e garantire la sicurezza della Repubblica del Popolo Rumeno contro i nemici interni ed esterni".
La Securitate manipolava la popolazione del paese con dicerie, macchinazioni, costruzione di false prove, denuncie pubbliche, incoraggiamento al conflitto tra vari strati della popolazione, umiliazione pubblica di dissidenti, torture, inasprimento della censura e della repressione. Era, in proporzione alla popolazione della Romania una delle più grandi e più brutali polizie segrete del blocco orientale (stralcio da Wikipedia).
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Quando il tenente Janos Vieru giunse a Tihuta al volante della sua Renault 12, furono in molti a chiedersi chi diavolo fosse. Alto, massiccio, scuro di carnagione e con grossi baffi spioventi, l’uomo, benché esibisse modi bruschi e sprezzanti, non mancava di un certo fascino animalesco che attirò subito l’attenzione maliziosa di diverse donne. Appena arrivato, si recò dal borgomastro Sebastian Rebreanu che lo accolse inizialmente con diffidenza ma che si mise immediatamente a disposizione e si profuse in inchini ossequiosi non appena Janos mostrò il suo tesserino.
Rebrenau era, a sua volta, un uomo dalla corporatura possente. Era nato a Sibiu ove aveva lavorato nel Museo Bruckenthal e successivamente nella locale biblioteca storica. Dopo aver frequentato con successo i più importanti ambienti politici e culturali della città, improvvisamente, a soli ventotto anni, aveva abbandonato tutto e si era trasferito a Tihuta ove ormai risiedeva da oltre venticinque anni e dove, da diverso tempo, ricopriva il ruolo di borgomastro.
Rebreanu, ovviamente doveva la sua posizione anche al fatto di essere un fedele membro del partito, tuttavia sapeva bene che la politica di collettivizzazione delle fattorie era stata un totale fallimento sia a Tihuta sia nell’intera Romania; sapeva anche che la responsabilità dell’insuccesso sarebbe ricaduta su di lui e l’improvviso arrivo di Jonas Vieru, proveniente da Sighisoara lo aveva innervosito.

In breve tempo la notizia dell’arrivo di un funzionario della Securitate si diffuse nella zona e tutti si fecero vedere animati da una grande attività. I campi erano pieni di contadini apparentemente al lavoro anche se ben consapevoli che, a causa dello sfruttamento del terreno che era stato imposto dal governo, il raccolto da conferire alla cooperativa sarebbe stato ancor più misero dell’anno precedente.
L’abitazione del borgomastro, che fungeva anche da “casa del popolo”, era la più grande e la più elegante del villaggio e il furbo Rebreanu mise subito a disposizione del tenente Vieru la stanza più bella e confortevole. Aveva anche notato con soddisfazione come l’ospite avesse guardato con un certo interesse la propria moglie: la procace Jielena. Era certo che la donna sarebbe riuscita a scoprire quali fossero le intenzioni dell’ufficiale e cosa fosse venuto a fare in quella sperduta località.

Jielena, detta “Jielena la rossa” era una formosa quarantenne che dopo aver, in giovanissima età, abbondantemente “gustate” le attenzioni di buona parte della popolazione maschile di Tihuta, si era qualche anno dopo definitivamente sistemata sposando Rebreanu uomo più anziano di lei, ma facoltoso, e che rappresentava anche la massima autorità della zona.
Col passare dei giorni e delle settimane Il borgomastro non riuscì a conoscere che qualche insignificante particolare sulla missione di Vieru; il tenente era riservatissimo e non parlava mai del suo lavoro. Rebrenau sollecitò Jielena a essere più insistente e a cercare di ottenere informazioni a qualsiasi costo. Spesso, durante la notte, non trovava la moglie al suo fianco e sentiva rassicuranti grugniti e gridolini provenire dalla stanza dell’ospite. La donna, tuttavia, non riusciva a ottenere alcuna interessante notizia anche se la cosa non la turbava affatto perché il vigore del giovane tenente era di suo completo gradimento .

Il comportamento del funzionario della Securitate, che tanto innervosiva il borgomastro, stupì dapprima e rassicurò poi gli agricoltori e gli allevatori. Assolutamente disinteressato dell’economia della zona, il tenente usciva prestissimo e passava l’intera mattinata passeggiando nei boschi e, in particolare, nella foresta Ardeiele a nord ovest del paese. Chi lo incontrava, lo vedeva consultare misteriose carte conservate gelosamente in una valigetta nera.
Nessuno aveva il coraggio di informarlo che la foresta Ardeiele era un posto pericoloso, pauroso e maledetto. I vecchi narravano ancora delle antiche leggende secondo le quali le Iele di quel bosco erano particolarmente malevole e vendicative a causa di antiche offese subite dagli uomini.

Si raccontava come, centinaia di anni prima, valenti cavalieri magiari, penetrati nel folto degli alberi, fossero scomparsi per sempre; altri erano ricomparsi ma irrimediabilmente fuori di senno. I giovani sorridevano ascoltando i racconti dei nonni, tuttavia nessuno aveva mai pensato di infrangere la tradizione e i boscaioli si guardavano bene dal tagliare gli alberi di quel bosco.
Il vecchio Popescu, uno degli anziani del paese, che in gioventù era stato un valente taglialegna, non si era mai avventurato nel bosco Ardeiele e raccontava alla nipote Costelia che le iele, spiriti magici femminili di bellissimo aspetto, nelle notti di plenilunio danzavano nude in un circolo ed erano talmente potenti da bruciare il suolo, lasciando all’alba cerchi oscuri dove ricrescevano solo strane erbe e funghi velenosi.

Curiosa, com’era sempre stata, Jielena, dopo una notte eccezionalmente trascorsa al fianco del marito, scorse dalla finestra della sua stanza il tenente Janos che si allontanava senza la misteriosa valigetta e si precipitò a piedi nudi nell’alloggio dell’amante per ispezionare il contenuto. La sonnolenta calma di quel mattino fu improvvisamente infranta da rumori, grida e imprecazioni furiose che risvegliarono di colpo l’assonnato borgomastro.
Nel letto di Janos, nuda e ancora addormentata, Jielena aveva trovato Costelia Popescu la bruna e avvenente ragazza che spesso la aiutava nei lavori domestici. Con molta fatica Rebreanu riuscì a separare le due furie che continuavano a lottare ferocemente scambiandosi insulti.

- Vecchia puttana bastarda!-
- Troia schifosa, ti strapperò quegli occhi cisposi!-
- Basta! Piantatela donne, farete accorrere tutto il paese! Cos’è questa storia?-
- E’ questa baldracca vecchia di tua moglie che…-
Costelia non riuscì a terminare la frase, approfittando della pausa dovuta all’intervento del marito, la robusta Jielena l’aveva colpita con un preciso diretto al mento facendola crollare a terra svenuta.
- E’ una ladra, Sebastian. Avevo sentito dei rumori, sono entrata e l’ho scoperta mentre frugava tra le cose dell’ufficiale. Pensa in che guaio ci saremmo trovati se non me ne fossi accorta. Devi cacciarla subito e non farla tornare mai più!-
- Ah…ecco. Certo, certo. Ora capisco. Brava moglie mia... l’abbiamo scampata bella! – mormorò il borgomastro sogghignando tra di sé.
L’atteggiamento delle due donne e il loro succinto abbigliamento non lo avevano certo tratto in inganno, ma la scusa trovata dalla moglie gli faceva comodo. L’ultima cosa che avrebbe voluto era che si suscitasse uno scandalo. Il partito non era tenero su certe cose. Contemplò con interesse il corpo seminudo di Costelia, aiutò la moglie a rivestirla sommariamente e la depose su di una panca sul retro dell’abitazione in attesa che, ripresi i sensi, si allontanasse.

La notizia dell’accaduto dilagò comunque presto nel villaggio per misteriosi canali, e sicuramente giunse anche alle orecchie dell’ufficiale della Securitate. Del resto gli appariscenti graffi e le ecchimosi che costellavano il corpo di Costelia e quello di Jielena erano più che evidenti. Per diversi giorni la giovane Costelia restò rinchiusa nella propria casa con grande soddisfazione dell’ottuagenario nonno, unico parente rimastole, che finalmente si vide un po’accudito da quell’indisciplinata nipote che, di norma, in casa non c’era mai.
Passarono i giorni, lenti e sonnacchiosi, il tenente Vieru continuava a trascorrere le sue giornate nelle foreste ma per il borgomastro non era stata una settimana tranquilla, aveva origliato alla porta dell’ufficiale e aveva udito Jielena lamentarsi per il “tradimento”. Janos aveva risposto con voce secca e sibilante e alle rinnovate proteste della donna era seguito il rumore secco di uno schiaffo. Da allora gli “svaghi” notturni erano cessati e il preoccupato borgomastro aveva sempre trovato la moglie al suo fianco durante la notte.
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Vanitosa come tutte le ragazze, Costelia, prima di uscire da casa, aveva lasciato passare il tempo necessario affinché i graffi si rimarginassero e le lividure sbiadissero. La guarigione non era ancora completa, ma non ce la faceva più a restare tra quelle quattro mura sopportando malvolentieri i borbottii e le lamentele del nonno; quella mattina un pallido sole si era fatto largo tra le nuvole e le foglie degli alberi, imperlate di brina, rilucevano come diamanti. Costelia indossò uno dei suoi abiti migliori, si mise al collo l’unico gioiello che possedeva: una collana d’ambra, e uscì, dirigendosi verso il bosco e assaporando l’aria fresca e profumata.

Non sentì i passi dell’uomo, attutiti dalla terra morbida e dall’erba. Due robuste braccia la afferrarono da dietro e una bocca rovente si poggiò sul suo collo baciandolo e mordicchiandolo. Intimorita e nello stesso tempo compiaciuta, la ragazza si rigirò con un movimento felino.
- Ah, sei tu…-
- Chi credevi che fosse? Stavi aspettando qualcun altro?-
- Non sto aspettando nessuno, passeggiavo…-
- E ora hai trovato me. Vieni, dietro gli alberi c’è un bel posto con l’erba morbida…-
- Non ti far venire strane idee, sto solo passeggiando e ora torno a casa, e poi con te non ci voglio stare.-
- E invece ci devi stare, se non piace a te, piace a me. Vieni!-
- Sei scemo? Ho detto no!-
- Ma chi ti credi di essere, piccola troia, sei uscita tutta agghindata e forse non hai neanche le mutande.-
Con forza l’uomo la gettò tra i cespugli e le denudò il seno gettandosi sopra di lei. Infuriata, e veloce come una gatta, Costelia se lo scrollò di dosso e schizzò in piedi tentando di fuggire. Con uno scatto l’uomo le afferrò una caviglia trascinandola nuovamente in terra e, incombendo su di lei, cominciò a sbottonarsi i pantaloni. Teresia scalciò, violenta, colpendolo sui genitali. Con un grugnito di dolore e di furore lui si ripiegò un attimo su se stesso, poi la afferrò per la gola scuotendola come un fuscello e tempestandola di colpi violentissimi. Rimase qualche attimo a contemplare, ansimante, il corpo esanime della ragazza steso ai suoi piedi, poi se la caricò senza alcuno sforzo su una spalla e si addentrò nel bosco.
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L’aria era gelida e tirava un forte vento sibilante la mattina in cui il nonno di Costelia, traballando sulle gambe malferme, e livido di freddo e di ansia, bussò tremante alla porta del borgomastro.

- padron Sebastian, devi aiutarmi e chiamare la polizia: mia nipote Costelia è scomparsa da casa da due giorni, certamente le è successo qualcosa…-
- cosa vai farneticando, vecchio. Sicuramente si sarà fermata in casa di qualche amica, hai chiesto in giro?-
- no, no, padron Sebastian, è stata vista avviarsi verso la foresta Ardeiele e poi nessuno l’ha più veduta. Qui tu hai il telefono, devi chiamare in città e avvertire la polizia.-
-tranquillo vecchio, prima di scomodare la polizia dobbiamo essere sicuri di aver fatto tutto il possibile e di aver verificato che cosa sia successo. Ora torna a casa, disporrò delle ricerche e ti farò sapere io qualcosa.-

Jielena guardò preoccupata il marito, un fatto del genere non era mai accaduto e chiamare la polizia era l’ultima cosa che Sebastian desiderava. E poi, non avevano già in casa qualcuno meglio della polizia? Con molta precauzione il borgomastro informò dell’accaduto l’ufficiale della Securitate.
Janos Vieru fu secco e minaccioso:
-queste non sono cose che mi riguardano, borgomastro; io ho ben altri compiti da svolgere! Se non sapete fare il vostro mestiere, che è quello di controllare i vostri compaesani, dimettetevi. E non m’infastidite più con queste storie. Probabilmente quella puttanella si starà rigirando nel letto di qualche contadino o di qualche allevatore, oppure sarà andata in città a “fare la vita”.-
Innervosito e mortificato da quel discorso arrogante, il borgomastro convocò tre o quattro giovani del luogo per fare qualche veloce ricerca, tuttavia nessuno si addentrò veramente nel l’Ardeiele. Di Costelia non si trovò nessuna traccia e la furba Jielena, in accordo con il marito, sparse in giro la voce che la ragazza era stata vista passeggiare di notte per le strade della vicina città di Bistrita.

Tihuta A.D. 1970 – novembre

Teresia Szabó, nel fiorire dei suoi diciotto anni si avviava a diventare la più bella ragazza di Tihuta. Il padre era uno dei più facoltosi personaggi della zona e nella sua fattoria, oltre ad un allevamento di cavalli, possedeva anche una segheria. La festa per il genetliaco della figlia fu grandiosa e furono invitati tutti gli abitanti del borgo.

La Tuica (acquavite di prugne), scorreva a fiumi e decine di bottiglie di ottimo Traminer troneggiavano sulle lunghe tavolate ricolme di cibo. Il fuoco ardeva scoppiettando nel grande camino di pietra rossa mentre il suono delle fisarmoniche accompagnava le danze e i canti. Sul fare della notte, nonostante il gelo esterno, l’aria si era fatta fumosa e rovente e Teresia, stanca e accaldata, uscì nel cortile per rinfrancarsi.

Un uomo uscì lentamente a sua volta e si avvicinò sussurandole proposte oscene mentre i suoi occhi si soffermavano libidinosi sul seno perfetto della ragazza. Teresia, che sapeva trattarsi di una persona importante, non voleva procurare problemi alla propria famiglia e, benché piena di disgusto, finse di considerare scherzose le parole dell’uomo e cercò di allontanarsi lentamente e con un sorriso. Improvvisamente questi l’afferrò brutalmente, stringendole il seno in una morsa con una mano ferrea e sudaticcia mentre con l’altra le sollevava la veste. Impaurita e offesa Teresia si svincolò con un guizzo dalle mani dell’uomo e impulsivamente lo colpì con forza.
Fuggendo e rientrando di corsa tra gli invitati e tra i familiari, Teresia non ebbe modo di notare il lampo di odio feroce che stava attraversando gli occhi del suo aggressore.

I giorni passavano lenti e monotoni, la neve era caduta in abbondanza durante la notte ma quella mattina un timido sole attraversava con spade di luce la ragnatela delle nubi. Come amava talvolta fare, Teresia aveva sellato la sua cavallina preferita e si era avviata lungo il sentiero che costeggiava l’Ardeiele. La foresta era silenziosa in modo inquietante: non un canto di uccelli, non un fruscio di animali nel sottobosco.
Incuriosita Teresia scese da cavallo e si addentrò tra gli alberi. Con sorpresa si avvide che profonde impronte segnavano la neve fresca, poi ebbe la sensazione di una presenza alle sue spalle, ma mentre accennava a girarsi un violento colpo alla nuca le provocò un lampo accecante di luce e la fece cadere bocconi nella neve mentre le tenebre calavano fosche su di lei.
L’aggressore sollevò facilmente il corpo esanime della ragazza e scomparve tra gli alberi.

Riprendere coscienza fu lento e angosciante. Teresia non riusciva a rendersi conto di dove fosse e che cosa fosse successo. Cercò di portarsi le mani alla nuca ove avvertiva un forte dolore; stupita, si accorse di non poterlo fare e di avere le caviglie e i polsi strettamente legati. Gradualmente i suoi occhi si adattarono all’oscurità rotta soltanto da un lieve chiarore che proveniva da un foro nella volta.
Si rese conto di trovarsi distesa, circondata da sterpi e cumuli di detriti, sul suolo di una caverna della quale non riusciva a vedere le pareti. Affannosamente, strisciando e rotolando, cercò di avvicinarsi là ove quel sottile fascio di luce illuminava una strana massa informe.
Agghiacciata dal terrore, comprese che si trattava di un ammasso di scheletri, ancora avvolti nei brandelli marci di antiche vesti e parzialmente ricoperti dalla vegetazione. Piangendo si raggomitolò su se stessa e svenne nuovamente.

La cavallina aveva atteso a lungo dopo la scomparsa di Teresia, poi, lentamente aveva ripreso la strada di casa ed era rientrata nella propria stalla. Nessuno si era accorto che la ragazza fosse uscita all’alba e, per molte ore, nessuno l’aveva cercata. La sua insolita assenza destò, verso mezzogiorno, qualche inquietudine, ma solo verso sera l’inquietudine si trasformò in angoscia. Tutti i familiari, i lavoranti e i vicini furono impegnati in affannose ricerche. Uomini a cavallo setacciarono senza esito la zona, ostacolati anche dal freddo intenso e dalla neve che aveva ripreso a cadere copiosa e che aveva cancellato ogni possibile traccia.

Quando Teresia riprese i sensi, il sole era ormai alto nel cielo e la luce che filtrava dalla stretta apertura nella volta era più intensa. Una lama rugginosa, resti di un’antica scimitarra, sporgeva, incastrata fra due sassi sopra il cumulo di corpi scheletriti.
Affannosamente la ragazza vi appoggiò le corde che le legavano i polsi e cercò di tagliarle. Lentamente le corde si sfilacciarono mentre grosse scaglie di ruggine si staccavano dalla lama corrosa. Liberate le mani, e con le dita intorpidite dal freddo, Teresia faticò a lungo per sciogliere i legami delle caviglie; si sforzò infine di estrarre la scimitarra dai sassi per procurarsi una difesa, ma l’antica arma le si sbriciolò tra le mani provocando una piccola frana che fece cadere di lato i resti di quegli antichi guerrieri.

Stranamente intatto, per qualche misteriosa alchimia della natura, apparve il corpo di un vecchio ricoperto da ricche vesti consunte e scolorite e con il capo ancora rivestito da un maestoso turbante dal quale spuntava la testa arrugginita di un grosso chiodo. Il suo volto, incorniciato da una folta barba grigia, appariva tuttavia sereno e rassicurante. Teresia lo fissò a lungo, stordita. Poi, pervasa da un’inspiegabile calma, si allontanò barcollando per esplorare la sua prigione e cercare una via di fuga.

La penombra si faceva sempre più fitta e la ragazza individuò a stento una scalinata di pietra che si perdeva verso l’alto. La percorse con cautela e, a tastoni, scoprì una robusta botola sopra di sé. La spinse più e più volte con tutte le sue forze senza alcun risultato. Era sbarrata dall’esterno. Gridò disperata cercando aiuto, ma le rispose solo l’eco della sua voce. Nascose il viso tra le mani piangendo, poi scorse uno strano ramo che sembrava infisso nella parete. Lo afferrò e lo staccò facilmente dal muro; era un’antica torcia con la testa ancora intrisa di catrame.

Come tutte le brave massaie di Tihuta, Teresia serbava in una tasca una scatola di fiammiferi da cucina della quale si era completamente dimenticata. Freneticamente ne accese uno e lo accostò alla torcia che, dopo qualche frigolìo, prese fuoco spandendo intorno una calda luce dorata.
Parzialmente rasserenata, la ragazza cercò di esplorare la sua prigione. Si rese subito conto di trovarsi in una caverna naturale che era stata, in tempi antichi, modificata dall’uomo. Sotto il muschio e i detriti era ancora visibile una rozza pavimentazione, un tratto di una parete era stato spianato, e incastonato nel muro si vedeva ancora uno scudo di pietra recante, in rilievo, lo stemma di un drago.

In un angolo si apriva una scura apertura e avvicinandosi, Teresia percepì un tremendo fetore di morte. Coprendosi il naso e la bocca con un lembo della veste si addentrò in quel passaggio che scendeva verso il basso e che, dopo diversi metri, sfociava in una grotta più piccola.
Alla luce tremolante della fiaccola uno spettacolo orribile e macabro la fece inorridire e lanciare un urlo di terrore: il cadavere mutilato e in decomposizione di una giovane donna giaceva, scomposto e quasi nudo, sul suolo.
Con ribrezzo vide che il corpo della donna era infestato da larve biancastre e il suo volto era ormai irriconoscibile, tuttavia un particolare catturò la sua attenzione: una vistosa collana d’ambra dai riflessi dorati circondava il collo della morta.
La riconobbe; l’aveva donata lei stessa, l’anno precedente a una ragazza che aveva lavorato qualche tempo nella fattoria di suo padre. Il cadavere era quindi quello della scomparsa Costelia Popescu, la nipote del vecchio tagliaboschi.

Disperata, Teresia comprese di essere caduta tra le mani di uno sconosciuto feroce assassino e rifece, correndo, il percorso che la portava nella caverna principale esplorandone ogni anfratto. Nulla. Quella tetra prigione non sembrava avere alcuna praticabile via di fuga, e la massiccia botola che ne chiudeva l’ingresso sembrava inamovibile.
La spinse, tuttavia, e la percosse a lungo fin quando le mani non le sanguinarono, gridò, chiedendo aiuto, fino a perdere la voce, infine, esausta, ritornò vicino all’antico guerriero barbuto mentre la luce che scendeva dal foro nella volta, molti metri al di sopra di lei si faceva sempre più fioca col calare della sera.
Si prese il volto tra le mani e pianse a lungo, scossa da silenziosi singhiozzi. La torcia le era caduta di mano e si era spenta. La notte scese veloce, ingigantendo il silenzio che la circondava rotto soltanto, a tratti, dal vento che soffiava in alto, nella foresta, generando un sibilo lamentoso simile al lamento di un moribondo. Infine la stanchezza prevalse e Teresia si addormentò.

La famiglia Szabó non era certo disponibile ad accettare la sparizione della ragazza con la stessa rassegnazione del vecchio Popescu. Nelle ricerche, che si erano protratte anche durante la notte, erano state impiegate decine di persone che avevano scandagliato casolari, pozzi e anfratti e che avevano, senza alcun esito, interrogato anche gli abitanti delle più lontane e isolate fattorie nel raggio di una decina di chilometri.
La polizia di Bistrita era stata subito allertata telefonicamente ma padron Szabó, che, aveva scarsa fiducia in un loro tempestivo intervento, si recò all’alba a casa del borgomastro per parlare col tenente Vieru. Rebrenau fu irremovibile: l’ufficiale riposava e non poteva essere disturbato, avrebbe provveduto lui stesso a informarlo non appena possibile.
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Al sorgere del giorno Teresia si risvegliò da un sonno agitato e popolato d’incubi. Fiammate di dolore le attraversavano ancora il cranio, originate dal colpo che aveva ricevuto alla nuca. Trascorse l’intera giornata quasi inebetita, stremata dalla fame e dalla sete. Solo con qualche fiocco di neve che riusciva a filtrare dall’apertura nella volta riuscì ad alleviare la sua arsura. Il tempo passava inesorabile, lento, e la ragazza alternava momenti di lucidità a periodi di profondo torpore.
Mentre uno stato febbrile iniziava a indebolire il suo fisico duramente provato, ebbe una singolare allucinazione; l’antico anziano guerriero si era chinato su di lei e mentre con la mano sinistra le sfiorava il volto con una carezza simile a un alito di vento, con la destra le indicava la parete sulla quale si trovava lo scudo di pietra con il bassorilievo del drago.
Proveniente da un mondo e da un tempo lontano una parola s’infiltrava dolcemente nella sua mente dandole un senso di pace: “Coraggio”.

I vecchi hanno il sonno leggero, e a notte inoltrata un anziano contadino che abitava in un’isolata casupola lungo la stradina che da Tihuta portava al lago Colibita fu risvegliato da uno strano inconsueto rumore. Sembrava il rombo del motore di un’automobile accompagnato dal galoppare di un cavallo. Sorpreso, perché molto raramente, e mai di notte, transitavano autovetture su quella strada, si affacciò alla finestra, ma riuscì solo a intravedere la luce di due fari che si perdevano in lontananza dietro gli alberi.

Non era ancora spuntata l’alba del suo terzo giorno di prigionia quando Teresia fu improvvisamente destata dal sonno da uno scricchiolio e un tonfo sordo. La botola che dava accesso alla caverna era stata sollevata di colpo. Tenuamente illuminata dal chiarore di una splendida luna piena, una figura enorme e informe stava scendendo la scala ansimando e con passo pesante. Un attimo dopo la botola si richiuse e quella mostruosa apparizione scomparve nel passaggio che conduceva al cadavere di Costelia. Al respiro affannoso e sibilante si unirono dei gemiti sommessi, quasi rantoli soffocati.
Toltasi le scarpe per non fare alcun rumore, Teresia si precipitò ove sapeva essere la scalinata e cercò di sollevare la botola. I suoi sforzi furono ancora una volta vani: qualche sconosciuto meccanismo l’aveva nuovamente sigillata. Dal profondo dell’oscuro passaggio sorse un lieve chiarore. Qualcosa o qualcuno aveva acceso una lanterna all’interno della piccola grotta dell’orrore.
Un urlo straziante di dolore e di agonia rimbalzò tra le pareti della caverna e la ragazza, terrorizzata, si portò le mani alle orecchie trattenendo il respiro. Aveva compreso che quell’essere diabolico aveva trasportato una nuova vittima che stava ora torturando a morte. Affannosamente si riportò verso quel cumulo di resti umani che era stata la tomba dell’antico guerriero e scavò con le mani sperando di poter trovare qualcosa che le servisse come arma di difesa. Inutile tentativo: solo fragili ossa e stracci polverosi che si disfacevano tra le dita.
Ancora una volta, vivida come se fosse ancora presente, le tornò in mente l’immagine del sogno e l’imperiosa indicazione del vecchio. Irrazionalmente, sapendo di non avere scampo, ne eseguì il comando e si appoggiò allo scudo di pietra. Le mani, come sospinte da un impulso sovrannaturale, si aggrapparono alla testa del drago che cedette lievemente. Stupita, Teresia spinse con maggior forza. Uno scatto e la parete ruotò scoprendo una buia apertura e sospingendo la ragazza all’interno. Un altro scatto e la parete riprese silenziosamente la sua posizione. Attutiti dallo spessore del muro, giungevano a tratti agghiaccianti lamenti.

Con mani tremanti la giovane trasse dalla tasca la scatola di fiammiferi. Ne erano rimasti pochissimi e il primo che cercò di accendere si era inumidito e si sbriciolò. Il secondo fortunatamente si accese, illuminando con la sua fragile fiammella il cunicolo nel quale si trovava. Infissa nella parete vide, con gioia, un'altra torcia che prese subito fuoco scoppiettando e rivelando che Teresia si trovava in una stretta e tortuosa galleria della quale non si vedeva la fine. Ancora incredula di essere riuscita a sfuggire alla sua lugubre prigione la ragazza accelerò il passo, incurante delle ferite che le pietre aguzze procuravano ai suoi piedi nudi. Con sollievo scoprì che, a tratti, altre torce sporgevano dalle pareti e ne raccolse qualcuna.

Il terreno era in lieve pendio e il suolo roccioso era frequentato da strani insetti biancastri che non avevano mai visto la luce del sole. Teresia corse e corse per un tempo che le sembrò infinito, l’aria era umida, tiepida e dall’odore stantio di muschio marcito. La stanchezza prese il sopravvento sull’eccitazione, il passo si fece sempre più lento e pesante fin quando la ragazza cadde a terra sfinita e perse i sensi.

I familiari della ragazza erano confusi e disperati, la loro bellissima figlia sembrava svanita nel nulla e nessuno era stato in grado di fornire la minima traccia. Come padron Szabò temeva, nessun agente della polizia di Bistrita si era fatto vedere nel borgo. Furente e angosciato si precipitò nuovamente a casa del borgomastro, assolutamente determinato a parlare personalmente con l’ufficiale della Securitate per chiedere un suo autorevole intervento.

- Mio marito non c’è- Lo accolse l’ancora assonnata Jielena – E’ da ieri che si è allontanato per cercare personalmente tua figlia e non è ancora rientrato.-
- Ti ringrazio Jielena, comunque non volevo parlare con lui, devo assolutamente vedere il tenente Vieru. Dov’è?-
- Credo stia ancora riposando, meglio non disturbarlo…-
- Me ne fotto del suo riposo! Dov’è la sua stanza? – gridò esasperato afferrando la donna per le braccia.
Intimorita, Jielena fece un cenno. Padron Szabò spalancò di colpo la porta della stanza che gli era stata indicata e rimase attonito sulla soglia: la stanza era vuota.
Jielena entrò a sua volta. – Se n’è andato… - disse, stupita. Aprì i cassetti e l’armadio. Vuoti. Della presenza dell’ufficiale non era rimasta alcuna traccia.
- Non è possibile…non è possibile – mormorò sconvolta – non può essere andato via così… senza un saluto… senza… aspetta, dietro la casa ci dev’essere la sua auto…andiamo! –
Si precipitarono entrambi sul retro dell’edificio. Solo una minuscola macchia d’olio sul terreno testimoniava che in quel posto, fino al giorno precedente, era stata parcheggiata un’automobile.

Bucarest A.D. 1970 – novembre

Quando il generale comandante delle forze di polizia fu convocato con urgenza dal ministro dell’interno, si chiese con preoccupazione quale altra grossa “grana” fosse in arrivo. Il ministro fu invece affabile e cordiale e gli chiese chi fosse, a suo parere, il più esperto e fidato investigatore in servizio.

- Sicuramente il commissario Holmes, eccellenza – affermò il generale.
- Sherlock Holmes?- sorrise il ministro
- Ahahah, eccellenza, non Sherlock bensì Stefan Holmes. Sì, i suoi antenati erano probabilmente stranieri, ma è uno dei nostri migliori ufficiali ed è quello che ha risolto il caso di Verescu, quel serial killer detto “l’uomo col martello”, assicurandolo alla giustizia.-
- Dove presta servizio in questo momento? –
- A Cluj- Napoca. -
- Ottimo. E’ persona fidata e discreta?-
- Assolutamente, eccellenza, ne rispondo personalmente. –
- Mi auguro che sia così, generale, il caso è molto riservato e interessa personalmente il Presidente. Ora la informerò dei particolari e le consegnerò una busta sigillata con delle informazioni confidenziali che dovrà essere consegnata al vostro commissario. Dia anche disposizione che gli sia fornita qualsiasi cosa di cui possa avere bisogno. –

La conversazione proseguì per circa mezz’ora durante la quale il ministro informò il generale di ogni particolare.
Una cordiale stretta di mano concluse l’incontro.
Telefonicamente il generale ordinò che fosse subito approntato il suo elicottero personale e poche ore dopo si trovava già presso il comando della polizia di Cluj-Napoca a colloquio con il commissario Holmes.

- Agli ordini, signor generale. –
- Si metta comodo commissario. Ci conosciamo da qualche tempo e lei ha la mia stima e fiducia. Il caso che le affido proviene dal Presidente in persona e dovrà essere risolto con cautela e discrezione perché riguarda la scomparsa di un ufficiale della Securitate, inviato in missione a Tihuta, che da due giorni ha interrotto il rapporto giornaliero che inviava via radio al proprio comando.
- Signor generale, non può trattarsi di un guasto alle apparecchiature? –
- No, in questo caso, secondo le disposizioni ricevute, avrebbe dovuto subito avvertire telefonicamente il comando; inoltre, sono stato informato dalla polizia di Bistrita che in quella zona sono già sparite altre persone.
- Se non sono indiscreto, signor generale, potrei conoscere la natura di quella missione? Sono anche perplesso, come mai non se ne interessa direttamente la Securitate, trattandosi di un proprio ufficiale? –
- Commissario, molte informazioni le troverà in questa busta che le consegno da parte del ministro. Quello che invece le dirò adesso è strettamente confidenziale e deve restare tra di noi. La Securitate non è stata incaricata di fare indagini per due motivi: il primo è che questo ufficiale, il tenente Janos Vieru, non ha fino ad ora prodotto alcun risultato, il secondo è che il nostro Presidente comincia ad avere qualche dubbio sulle capacità e sulla fedeltà al Governo del generale comandante della Securitate Ion Mihai Pacepa. -
- Grazie generale. Comprendo la delicatezza delle informazioni che mi ha fornito. Immagino che troverò nella busta i particolari della missione? –
- Non proprio commissario. Nella busta troverà copia di tutti i documenti consegnati in una valigetta al tenente Vieru: antiche mappe, relazioni, descrizioni di località e di combattimenti, rapporti riservati antichi e recenti, ma non lo scopo della missione. –
- Comprendo, però avrò qualche difficoltà a… -
- No, non può capire commissario. Il nostro è un antico paese dalla storia complicata. Siamo divenuti una nazione solo nel 1877; siamo stati, nei secoli, spezzettati, invasi e sottomessi da Turchi, Ungheresi, Tedeschi e Austriaci.
Il Presidente ha giustamente ritenuto che avessimo bisogno di un eroe, un simbolo che possa rafforzare l’identità nazionale e l’orgoglio del paese. Ogni Stato ha glorificato e portato come esempio un proprio condottiero: gli Stati Uniti hanno George Washington e Abramo Lincoln, la Francia ha Napoleone, l’Italia, Garibaldi. Noi siamo conosciuti dalle varie popolazioni per l’assurda e fantasiosa narrazione di un romanziere: Bram Stoker con il suo Conte Drakula e la leggenda dei vampiri. In realtà questo Drakula non è altro che il nostro Vlad III°, Principe di Valacchia e cavaliere del Sacro Ordine del Dragone.
Il Presidente vuole che questo Principe sia conosciuto, rivalutato e divenga il nostro eroe nazionale: il vittorioso difensore dell’occidente contro lo strapotere dell’Impero Ottomano. A tale scopo è necessario ritrovare la sua fortezza, o quanto ne rimane, che sicuramente si trova al passo di Tihuta. Con la speranza di ritrovare in essa antichi documenti, per fornirci ulteriori utili elementi sulle battaglie e le vittorie del Principe.-
- Ora è tutto chiaro, signor generale. Partirò subito. Naturalmente mi occorre un furgone attrezzato, dei tecnici e del personale esperto in vari settori. –
- Lei ha carta bianca commissario. Avrà tutto ciò che le sarà necessario.

Tihuta A.D. 1970 – fine novembre

L’arrivo a Tihuta di due autocaravan, quattro motociclisti e un furgone, carichi di uomini in divisa della polizia e di specialisti fu, in quest’occasione, accolto con sollievo dalla popolazione spaventata e preoccupata per gli ultimi avvenimenti. Dimenticata l’abituale diffidenza, la gente accolse i poliziotti con la massima cordialità. Padron Szabò lieto e sorpreso per quell’inatteso schieramento di forze, mise la sua casa a disposizione degli agenti la cui presenza era ufficialmente motivata dalla ricerca di Teresia.

Per prima cosa il commissario Holmes incaricò un ispettore di convocare tutti i capifamiglia a casa Szabò per interrogarli e ottenere ogni possibile informazione. Furono fatti intervenire anche il borgomastro con la moglie Jielena. In realtà Holmes, coadiuvato da due agenti e dal suo fidato ispettore Marcos, voleva perquisire con la massima attenzione tutta la casa ove aveva soggiornato il tenente Vieru senza che nessuno lo sapesse.
Naturalmente iniziò dalla stanza del tenente per poi setacciare ogni angolo della casa. Gli agenti avevano avuto disposizione severissima di rimettere accuratamente ogni cosa al proprio posto perché nessuno doveva accorgersi dell’avvenuta perquisizione. In fondo a un ripostiglio, ripieno di vari attrezzi di lavoro, l’ispettore Marcos trovò un paio di scarponi. Li esaminò attentamente e, con delicatezza, raccolse in diverse buste frammenti di terra, erba e sostanze di vario genere.
Holmes, nel frattempo, esaminava pensoso un antichissimo mobile. Era un pezzo raro, da collezionista, vecchio di qualche centinaio di anni, ricco di fregi e modanature, dotato di un piano di scrittura e di numerosi cassetti che controllò accuratamente. Non contenevano nulla d’interessante. Il commissario sorrise, era un appassionato di oggetti di antiquariato e ne conosceva diversi trucchi. Passò con delicatezza la mano sulle modanature, ruotò un ornamento: uno scatto, e si aprì uno scomparto segreto. Conteneva una cartellina ricolma di documenti; li fotografò attentamente uno per uno e li rimise al proprio posto. Terminata la ricerca, ogni reperto fu consegnato ai tecnici del furgone che conteneva un laboratorio perfettamente attrezzato.

L’interrogatorio dei capifamiglia non portò alcun elemento utile. I vecchi incolpavano dell’accaduto le Iele dei boschi e i giovani si limitavano a parlare delle inutili ricerche fatte. Due o tre di loro si guardavano di sottecchi dandosi di gomito: l’improvvisa e inaspettata partenza dell’ufficiale della Securitate, cui le donne piacevano, e molto, sembrava una possibile dimostrazione di colpevolezza, nessuno tuttavia aveva il coraggio di esternare i suoi dubbi alla polizia. L’unico fattore di qualche interesse fu la narrazione di un vecchio che parlò del transito notturno di un’auto e forse anche di un cavallo, lungo la strada verso il lago. I giovani del villaggio ridacchiarono; il vecchio era noto per le sue fantasie e per l’attaccamento alla bottiglia; nessuno sano di mente avrebbe percorso in auto, di notte, quella stradina tortuosa e pericolosa Non volendo trascurare alcun particolare un ispettore ordinò a due agenti motociclisti di compiere a bassa velocità lo stesso percorso e di esaminare ogni possibile traccia.
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Quando Teresia si riprese dal deliquio, era ormai in preda ad una febbre altissima. Aprì a stento gli occhi con la mente annebbiata, non ricordava quasi più cosa fosse accaduto e dove si trovasse. Il dolore alla testa si era fatto pulsante e insopportabile. Intorno c’era l’oscurità più fitta; con fatica e sofferenza si alzò, senza neppure accorgersi delle pietre aguzze che torturavano i suoi piedi già piagati. Da quasi quattro giorni era priva di acqua e di cibo e le sue vesti, ormai lacere, erano lorde di escrementi e di urina.
Istintivamente, inciampando e trascinandosi a volte carponi, si diresse verso una parvenza di luce che appariva in lontananza. Quella luminosità, che traspariva tra alcunii cespugli, si fece sempre più chiara. Un ultimo sforzo e mentre gli sterpi le graffiavano il viso si trovò improvvisamente all’aperto, ai margini di un bosco.

Il vecchio era molto nervoso; gli sbeffeggiamenti e l’incredulità dei giovani lo avevano offeso profondamente, inoltre riteneva di aver fornito alla polizia delle notizie inutili e incontrollabili e che forse sarebbe stato punito per questo. Stava per varcare la soglia di casa quando percepì con la coda dell’occhio un movimento lontano che lo incuriosì. Una visione femminile dall’aspetto devastato, ma ancora splendida nella sua giovanile bellezza, avanzava vacillando verso di lui.
Terrorizzato, il vecchio si precipitò in casa.

- Marika, Marika, aiuto, siamo perduti! Dal bosco stanno uscendo le iele e stanno venendo qui! –
- Ma che dici babbo? Sempre con queste tue fantasie… -
Marika, una robusta contadina di una cinquantina d’anni, si affacciò all’uscio e si portò le mani al viso.
- Madonna Santissima! Ma quella povera creatura sta male… -
Teresia era caduta in terra sfinita. Marika accorse, la prese in braccio e l’adagiò sul suo letto.
- Presto babbo, presto! Ma quali iele, questa è quasi una bambina che si sarà smarrita! Dio mio, come scotta. Portami subito dell’acqua calda e dei panni puliti, corri!
Con dolcezza la donna deterse il viso e le mani di Teresia, vide i piedi piagati e le labbra screpolate e scosse la testa.
- Questa bimba non beve da chissà quanto tempo, portami dell’acqua fresca Pa’. –
Con una pezzuola bagnata Marika versò qualche goccia tra le labbra della ragazza, poi guardò il padre che, istupidito stava ai piedi del letto e lo scacciò.
- Esci, Pa’ e chiudi la porta –
Con grande attenzione tolse le vesti alla ragazza e le gettò in un angolo, poi, dopo averne deterso il corpo e fasciate le ferite, la depose tra lenzuola fresche di bucato e odorose di spigo.
Lentamente Teresia riaprì gli occhi.
- Chi sei bimba mia, come ti chiami? –
Teresia fissò quel volto materno e sorrise, poi abbassò le palpebre e cadde in un sonno profondo.

La foresta Ardeiele

Quella mattina il vento era cessato e la pioggia cadeva lenta e pesante trasformando la neve in fanghiglia. Holmes si era alzato all’alba dallo scomodo lettuccio dentro il furgone, infreddolito e dolorante. Le fotografie dei documenti trovati nel cassetto segreto erano già state sviluppate e le stava controllando da quasi due ore.
L’ispettore Marcos entrò sorridendo scuotendosi l’acqua da dosso.

- I tecnici hanno lavorato tutta la notte, commissario, le analisi sono pronte! –
- E allora? –
- Allora, il terriccio trovato negli scarponi non ci dice nulla, è quello comune in tutta la zona, però conteneva tracce di sangue; e si tratta di sangue umano! –
- C’è altro? –
- Sì, ed è la cosa più interessante, c’era anche una larva di Calliphora Vicina, un insetto necrofago che si nutre di cadaveri e i resti di una Bathynella, un minuscolo vermiciattolo che vive solo nelle caverne.-
- Molto bene. Ci siamo! Chi hai incaricato della sorveglianza?-
- Quattro dei miei uomini migliori, stia tranquillo commissario, non può sfuggirci. –
- Bravo Marcos, adesso ascoltami bene: il posto si trova nell’Ardeiele, le indicazioni di questi documenti sono abbastanza precise e mi hanno consentito di localizzare una zona entro il raggio di un chilometro. Quanti uomini disponibili abbiamo? –
- Otto, commissario. –
- Pochi, ma ce li faremo bastare. Su questa cartina ho indicato le coordinate e il perimetro della zona da sorvegliare. Ordina che gli uomini si muovano in silenzio e con la massima circospezione, ho motivo di credere che nella zona possano esserci antiche trappole molto pericolose. Dovranno indossare le tute mimetiche e appostarsi in modo da essere invisibili. -
- Sarà fatto. Agli ordini. –

La giornata trascorse tranquilla. La pioggia era cessata e verso sera una nevicata leggera riprese stancamente a cadere sulla fanghiglia ghiacciata. Il sole era tramontato e alle prime ombre della notte se ne aggiunse un'altra che, silenziosamente, scivolava come un fantasma lungo i muri. Altri quattro fantasmi, dotati di visori notturni, ne seguivano attentamente il cammino.

L’Ardeiele li accolse con un fruscio sommesso di fronde simile a un lamento. Una sbiadita luna faceva, a tratti, capolino tra le poche nubi e illuminava una figura massiccia che si muoveva circospetta ma decisa. Comparvero i ruderi corrosi e ricoperti di muschio di un’antica costruzione; nascosto tra la neve e gli sterpi un massiccio anello di ferro, solo parzialmente indebolito dalla ruggine, venne fatto ruotare due volte. Con uno strappo l’uomo sollevò una pesante botola che ricadde con un tonfo.

- Alt, non ti muovere! Polizia-

Con un sobbalzo e con gli occhi iniettati di sangue l’uomo percepì, più che vedere, diverse ombre convergere su di lui. Uno scatto fulmineo e si gettò tra gli alberi correndo disperatamente. Altre ombre comparvero alla sua destra intimandogli di fermarsi. Smarrito, cambiò direzione. Il sangue gli pulsava nelle tempie e con lo sguardo annebbiato gli sembrava che gli alberi lo deridessero, ostacolandolo, e che la foresta lo imprigionasse.
Improvvisamente il terreno si aprì sotto di lui. Precipitò. Seguì un agghiacciante urlo di agonia.
Muovendosi con cautela, i poliziotti illuminarono con le torce elettriche il pozzo nel quale era sprofondato l’uomo.
L’antica trappola aveva ottenuto ancora una volta la sua vittima. Un robusto palo aguzzo, ben fissato nel fondo, aveva trapassato il corpo dell’uomo fuoriuscendo dalla nuca. Agonizzante, il borgomastro aprì la bocca per dire qualcosa, ma ne uscì solo un fiotto di sangue e la luce si spense nei suoi occhi.

Cluj-Napoca A.D. 1970 - 8 dicembre

- Complimenti commissario, ho letto accuratamente il suo rapporto. Ha fatto uno splendido lavoro; il Ministro ha avuto i documenti e le informazioni di cui aveva bisogno anche se, vistone il contenuto, il Presidente dovrà rinunziare alle sue idee sull’eroe nazionale. Sono curioso, però, e ho qualche domanda da farle. Vuole intanto raccontarmi, con parole sue, com’è riuscito a risolvere così rapidamente il caso?-
- La ringrazio signor generale. Ebbene, prima di recarmi a Tihuta avevo raccolto ogni possibile informazione sia sul povero tenente Vieru che sembrava il principale sospettato, sia su diversi personaggi del posto, compreso il borgomastro. Del tenente Vieru avevo appreso che si era, in passato, defilato dal partecipare a certi interrogatori un po’, mi perdoni, cruenti, che venivano effettuati dalla Securitate.
Sembrava quindi un uomo poco incline alla violenza.
Del borgomastro mi aveva insospettito la sua improvvisa e immotivata partenza da Sibiu, molti anni fa, e il fatto che alcuni anni dopo si fosse scoperto che, dall’archivio della locale biblioteca storica, mancavano degli antichi documenti sul Voivoda Vlad III°.
Dalle carte occultate in casa del borgomastro appresi una notizia sensazionale: questi aveva effettuato, in gioventù, accurate ricerche sui suoi antenati e aveva accertato di essere un discendente diretto di Kinher “il malvagio” che era uno dei due figli nati dal matrimonio del principe Vlad con Ilona Szilagy. Tra i documenti trafugati nella biblioteca aveva inoltre trovate precise indicazioni sulla posizione della fortezza del suo antenato nell’Ardeiele di Tihuta.
- Ma perché si trasferì a Tihuta?-
- Signor generale, probabilmente voleva ritrovare la fortezza del suo antenato e forse altri documenti. Sicuramente riteneva suo diritto essere il Voivoda della Valacchia o quanto meno di Tihuta. Scoprì, grazie ai documenti trafugati, le antiche rovine e il sotterraneo ricavato nella caverna, poi divenne borgomastro e questo, in un certo senso, lo accontentò.
L’arrivo del tenente lo fece profondamente irritare, comprese quasi subito, vedendo le sue ricerche nella foresta Ardeiele, che gli era stata affidata la missione di ritrovare l’antica roccaforte del suo avo che lui, invece, considerava sua proprietà personale. Poi si rese conto che le informazioni in possesso dell’ufficiale erano forse frammentarie e insufficienti e che probabilmente non sarebbe mai riuscito a individuare le rovine.-
- E allora…perché l’ha ucciso?-
- Perché aveva precedentemente già violentata e uccisa la giovane Costelia che probabilmente gli si era rifiutata; perché aveva programmato lo stesso trattamento per l’altra ragazza: Teresia; perché aveva scoperto che violentare, torturare e massacrare gli procurava un immenso piacere e inoltre voleva che della loro scomparsa venisse incolpato proprio il tenente verso il quale nutriva ormai un odio profondo per i modi sprezzanti e arroganti con cui era stato trattato.
Il suo piano era semplice e avrebbe potuto avere successo. Aveva tramortito l’ufficiale e lo aveva trascinato di notte nella caverna ove lo aveva torturato a morte. In gran fretta, poi, era rientrato in casa, aveva legato un cavallo all’auto del tenente Vieru, si era messo al volante e l’aveva inabissata in un punto quasi inaccessibile del lago Colibita dove i miei uomini ne hanno trovate le tracce e l’hanno recuperata.
Successivamente Sebastian Rebrenau era montato a cavallo tornando a casa verso l’alba, giustificando la sua assenza con una sua personale ricerca della ragazza scomparsa. Se il nostro intervento non fosse stato così tempestivo, in pochi giorni la neve e la pioggia avrebbero fatto scomparire ogni traccia dell’auto, e si sarebbe pensato che il tenente Vieru si fosse rifugiato all’estero dopo aver rapito e forse uccisa la giovane Teresia Szabò.
- C’è ancora un particolare che non mi è chiaro, come mai Rebrenau non ha violentato e uccisa subito la Szabò e perché è ritornato ai ruderi della fortezza con il rischio di farsi scoprire come infatti è avvenuto?-
- Generale, ricorda il caso di Verescu, quell’assassino psicopatico?
- Certamente, ed è stato proprio lei a risolverlo, commissario.
- Verescu era un uomo gentile, addirittura timido, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che una persona simile potesse aver rapito, stuprato e massacrato decine di donne. Eppure il criminale sadismo di quell’individuo godeva essenzialmente nel vedere il terrore e l’orrore delle sue vittime. Non avrebbe mai fatto nulla fin quando queste fossero state in una situazione di incoscienza che l’avrebbe privato del suo principale piacere.
I nostri esperti ritengono che Rebrenau sia stato un sadico “latente”, la cui follia si è scatenata in una forma schizofrenica convincendosi, forse, di essere una specie di reincarnazione dei suoi antenati.
Da parte mia ero abbastanza sicuro che il borgomastro sarebbe tornato nella caverna per completare la sua opera. Era infatti plausibile che, per la fretta di occultare l’auto del tenente Vieru, non si fosse reso conto che la ragazza potesse essersi liberata e che fosse fuggita. Del resto non poteva essere a conoscenza di quel passaggio segreto, altrimenti non avrebbe lasciato mai in vita la sua vittima. -
- Che orrore! Quella ragazza,Teresia Szabò, ora sta bene?
- Fortunatamente sì, signor generale, ha avuto tutte le cure necessarie e dopo una quindicina di giorni si è ripresa completamente ed è tornata in famiglia.
- Commissario, mi è stato riferito che la ragazza ha raccontato che in quella grotta c’era il cadavere, forse mummificato, ma ancora intatto, di un antico ottomano. Potrebbe essere, come narrano i documenti dell’epoca, uno degli ambasciatori del Sultano. Sono state prese delle fotografie? E che fine ha fatto quel corpo? Nel suo rapporto non ne trovo traccia…
- Non saprei che dire, signor generale. Abbiamo, sì, trovati i mucchi di ossa delle vittime che Vlad III° faceva gettare in quel buco nel terreno, ma di questo fantomatico messaggero non c’era alcuna traccia. Un’allucinazione di quella povera ragazza? Non lo so. Ricorda come diceva Shakespeare? : “ci sono più cose in cielo e in terra Orazio…”-
-di quante ne sogni la tua filosofia – concluse il generale con un sorriso – Sì, commissario, ricordo bene!-