lunedì 28 maggio 2007

Le calosce

Avevo quattordici anni ed eravamo a Roma da un paio di mesi, era inverno e pioveva allegramente da vari giorni sicché, quando tornavamo a casa, dopo la scuola, le nostre scarpe erano grondanti e inzaccherate, e così anche piedi e calzini. A papà venne una grande idea: le calosce!
Oggi con questo temine si intende un paio di scarpe di gomma impermeabile, allora le calosce erano delle “soprascarpe”, una specie di guaina nera, di gomma lucida, che si calzava sopra la normale calzatura e ingrossava ulteriormente le mie già larghe “basi d’appoggio”.

A me questa lucida pellicola parve bellissima, anche perché copriva le magagne dell’ormai consunto e risuolato paio di scarpe invernali che indossavo per andare a scuola. Bisogna dire che, malgrado la quasi prestigiosa posizione di papà, a quell’epoca non si nuotava nell’oro: ci portavamo dietro i debiti fatti per le cure di mamma, recentemente venuta a mancare, le spese del trasloco da Messina a Roma e quelle scolastiche (alla fine si erano dovuti ricomprare diversi libri).
A questo va aggiunto anche un certo modo di vivere spartano, in parte legato ai tempi e, in parte maggiore, agli usi familiari, per i quali gli acquisti annuali di vestiario consistevano, per ogni figlio, in un completo invernale ed una o due paia di calzoncini estivi, un paio di scarpe marrone per l’inverno, un paio di sandali per l’estate, ed un imprecisato numero di accessori (camicie, calzini, fazzoletti ecc.), spesso rappezzati e, in parte, riciclati dal maggiore al minore dei fratelli.
Si aggiunga al tutto il fatto che né mamma né papà avevano mai palesato grandi capacità di amministrazione e che, mancata mamma, papà si era dimostrato ancora più impacciato in questo compito, al punto di dover ricorrere a volte ai risparmi che io e mio fratello avevamo fatto sulla nostra paghetta per pagare la bolletta della luce che, a suo dire, gli arrivava sempre “fra capo e collo”.
A queste difficoltà si veniva ad aggiungere il problema della nostra carente preparazione scolastica: l’anno prima avevamo combinato ben poco ed avevamo raggiunto la promozione solo perché l’insegnante di lettere ( Italia De Lieto, grande come professoressa e come persona), al corrente della situazione familiare, non aveva infierito ed aveva usato la manica larga. Adesso ci trovavamo ancora peggio perché i nostri trascorsi non interessavano più di tanto i nuovi insegnanti né tanto meno i nuovi compagni del prestigioso liceo-ginnasio Terenzio Mamiani che ci trattavano con sufficienza se non con aperta ostilità.
Insomma rischiavamo la bocciatura e la zia Dina, sorella di papà, ci mandò a prendere lezioni di latino e greco dalla signorina Mugnai, nipote, se ben ricordo, di un prestigioso nome del mondo universitario ed anche politico (il prof. Lucio Lombardo Radice). Costei era allora studentessa della facoltà di lettere, con un prestigioso curriculum, sia scolastico che universitario, e si guadagnava qualcosa dando lezioni private e facendo supplenze (allora si poteva anche prima della laurea).
Il suo nome era Elena, era una ragazzona bionda, alta, con due meravigliosi occhi verdi ed un naso a patata sull’ovale del viso sempre sorridente. Ci accolse, fradici di pioggia nei nostri impermeabilini alla “tenente Sheridan”, in una vasta sala della casa paterna dove, in un angolo, sopra un tavolo rotondo coperto di velluto verde, erano disposti libri e vocabolari usati per le lezioni.
Su una parete, un bel caminetto acceso crepitava allegro riscaldando l’ambiente che, in quel buio pomeriggio invernale, prendeva luce da una lampada a piede, posta in prossimità del tavolo, che illuminava di una luce calda, lasciando nella penombra il resto di quel vasto ambiente affollato di libri. Elena ci accolse con calore ed affetto mettendoci subito a nostro agio ma, quando ci invitò a levare le calosce per farle asciugare vicino al fuoco, io e mio fratello ci guardammo smarriti.
Non potevamo levare quei lucidi involucri senza mettere a nudo le nostre scarpe sporche e sdrucite e tirammo giù una serie infinita di “ma no, ma non importa, ma si asciugano lo stesso, non ce n’è bisogno” e così via, fin quando la poveretta non rinunciò ad insistere con nostro grande sollievo. Elena si rivelò in seguito molto più di un’insegnante privata con cui fare i compiti. Credo che la sua comprensione ed il suo sincero affetto sia stato veramente fondamentale in quei momenti di grande solitudine e sconforto, momenti in cui ci mancava non solo la mamma ma anche il conforto di un amico.
Papà era ancora una figura non confidenziale e zia Dina, che pure fu sempre affettuosa e presente, era ancora una figura troppo diversa da nostra madre e, nella nostra mentalità adolescenziale, era vista con una certa ostilità, quasi come un’intrusa che volesse occupare una posizione non sua. Il fatto che papà le si affidasse in modo quasi acritico aumentava questa distanza ed Elena più che l’insegnante di greco e latino fu per noi una confidente ed una consigliera. Seppe sempre smorzare le tensioni ed anche asciugare qualche lacrima che, per orgoglio, non veniva versata in famiglia. Purtroppo l’anno non andò comunque molto bene: al secondo trimestre arrivò a casa una lettera della scuola che avvertiva i genitori del rischio che non venissimo ammessi agli esami di quinto ginnasio.
Ci fu di conseguenza il Gran Consiglio di famiglia in cui zia Dina sentenziò che dovessimo cambiare scuola. Mio fratello, poco più grande di me, ma da sempre meno volenteroso e grintoso, accettò, ma io mi impuntai duramente anche se fui obbligato a promettere che avrei riguadagnato terreno. Poiché l’iniziativa della lettera era stata dell’insegnante di francese, la prof. Lami, una signora di origine slava, amatissima dalla classe che lei aveva seguito fin dalla media, zia Dina si obbligò a nuove spese, mandandomi a lezione dalla signora Bollea, la moglie del famoso professore di psichiatria infantile, una signora affabile ma severa che mi sottopose ad una massacrante routine. Quando avevo cominciato commettevo circa tre errori per frase (usando il vocabolario) perché lo standard d’insegnamento dell’insegnante di Messina, la signora S....., era molto basso ed io non ero certo tra i migliori.
Alla fine dell’anno conversavo e traducevo in simultanea e, senza vocabolario ( il cui uso in classe era assolutamente vietato) non infilavo più di un paio di errori ortografici per compito. Io stesso non ci credevo! Latino e greco non raggiunsero mai quello standard; nel latino, bene o male, sono sempre riuscito a lambire la sufficienza ma il greco me lo portai comunque a settembre. Per fortuna il professore che mi esaminò e che sarebbe stato il mio insegnante anche al liceo, tale Antonino Musmarra, era un uomo di grande intelligenza e, per quanto apparisse sempre scontroso e burbero, anche di grande umanità sicché, alla fine, riuscii a conquistare la licenza ginnasiale. Qualche tempo dopo, lo stesso insegnante, parlando con mia zia Dina ebbe a dire la storica frase: “Signora, suo nipote il greco non lo sa, ma non lo saprà
MAI! Perciò lo promuovo”.

Julien

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Direi che quell'insegnante di greco ha scelto la via migliore per voi e per lui.
Un salutone

Anonimo ha detto...

Pensavo l'avessi scritto tu! Soltanto alla fine ho visto la firma di Julien(ecco perchè c'era qualcosa che non mi tornava...).
Comunque è molto gradevole e si legge tutto d'un fiato!

Anonimo ha detto...

Scusami,ma nel commento precedente mi sono dimenticata di firmarmi.
Baci
Frida

GMGhioni ha detto...

Che belle pagine! Davvero memorie che riesci a far rivivere, una dopo l'altra, e a palesarle davanti ai nostri occhi.
Grazie

Anathea