martedì 1 maggio 2007

Zari


Si chiamava Zarì. I suoi occhi castani, dolci e intelligenti, dai riflessi dorati, mi guardavano sempre con adorazione. Era il mio compagno di giochi, il mio amico più caro, la mia vittima. Sopportava con rassegnata pazienza tutte le mie angherie.Correvo con lui. Ci rotolavamo insieme per terra. Lottavamo. Gli salivo sulle spalle e lo cavalcavo. Gli infilavo in gola il mio piccolo pugno di bambino di due anni. Quando proprio non ce la faceva più, mi guardava negli occhi, arretrava di un passo e faceva un secco: “Buh”. Il suo aspetto si faceva maestoso e corrucciato, l’atteggiamento minaccioso e quasi aggressivo; ma il lungo fiocco della coda, scodinzolante, tradiva la sua finzione ed il suo affettuoso divertimento: Era sempre lui, il mio amico, il mio guardiano devoto, il mio cane.Dalla finestra della camera da letto, che raggiungevo salendo su di una sedia, si scorgeva un ampio spiazzo antistante una scuola elementare. Bambini in divisa, poco più grandi di me, marciavano, cantavano, giocavano, sotto gli occhi vigili delle maestre. Li guardavo incantato. Mi affascinava la loro cintura bianca con una grande “M” al posto della fibbia, il moschetto di legno che brandivano come tanti soldatini, il tricolore, con al centro lo stemma sabaudo, che sventolava in cima ad un pennone.Zarì appoggiava le lunghe zampe sul davanzale e guardava a sua volta, girando di tanto in tanto il capo verso di me scrutandomi interrogativamente con i suoi grandi occhi umidi e teneri. Poi si ritraeva, afferrava con i denti i miei vestiti e mi costringeva a scendere dalla sedia. Abbaiando e scodinzolando m’invitava al gioco, a correre, a lottare. E l’appartamento di quel gran caseggiato di Roma, in via Satrico diventava il nostro campo di gioco, la nostra foresta ricca di nascondigli, di cunicoli, di caverne misteriose e oscure che si addentravano sotto il letto di mamma e che trovavano uno sbocco tra due colonne nere: gli stivali di papà. Poi un giorno, un brutto terribile giorno, Zarì cominciò a cambiare: guaiva, ringhiava sommessamente e camminava strisciando il ventre per terra . Quando mi avvicinavo a lui, fuggiva e andava a nascondersi sotto i mobili negli angoli più remoti .Dopo pochi giorni la situazione peggiorò. Non mangiava più, un filo di bava gli colava dalla bocca e se mio padre gli si avvicinava ringhiava furiosamente mostrando le zanne. Con me no. Non ringhiava, ma mugolava e fuggiva disperato. Con gli ultimi barlumi di lucidità del suo povero cervello devastato cercava di non farmi del male e fuggiva via evitando di mordermi.Poi, tornando a casa, non trovai più Zarì. Lo cercai, disperato, per giorni e giorni. Mio padre e mia madre fingevano di non saper nulla e solo molti anni dopo compresi che il mio amico si era ammalato di encefalite, la cosiddetta rabbia, e che era stato abbattuto dal veterinario.Sono passati settant’anni e da allora molti altri cani si sono succeduti nella mia vita, ma il ricordo di Zarì e del suo affetto resta malinconico e indelebile nella mia memoria.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Laura (http://fantasyisland.blog.tiscali.it)
Grazie per il tuo passaggio. A me una cosa simile è successa, ancora una volta, con un gatto. Si era ammalato.... e i miei genitori me l'hanno fatto sparire. Non sopportavo che fingessero di non sapere niente, mentre io piangevo disperata!

Anonimo ha detto...

Lorenzo (http://velamaremonti.blog.tiscali.it)
Scorci, aneddoti di vita indimenticabili.
Complimenti, scrivi proprio bene.
L.